La passione civile, cura di Mattarella per l’Italia

ITALIA. C’è chi ha letto il discorso del presidente Mattarella come l’amara denuncia dei mali che ci affliggono. Ma, secondo noi, proprio questa manifesta preoccupazione ha evidenziato la capacità ricostruttrice dell’arbitro del Colle.

Quei 16 minuti rivolti agli italiani vanno quindi interpretati partendo dalla fine di quelle parole, quando il Capo dello Stato dice di aver visto i valori della Costituzione testimoniati da quei sognatori che cambiano la realtà, dalla loro operosa solidarietà: «Le loro storie raccontano già il nostro futuro. Ci dicono che uniti siamo forti». Un certo degrado si contrasta rispondendo all’appello della passione civile. Andando a votare, certo, ma non solo. Se il Censis recentemente ci ha descritto come un popolo di sonnambuli (una comunità che dorme da sveglia), Mattarella ci dice che la forza della Repubblica è la sua unità: «Ascoltare, partecipare, cercare con determinazione e pazienza quel che unisce». Per tradizione il cuore del discorso di fine anno è il messaggio di speranza e fiducia trasmesso ai cittadini. L’interlocutore, almeno in prima istanza, non è la politica ma l’opinione pubblica. Questa volta c’è stato un valore aggiunto. Uno svolgimento, immaginiamo, volutamente studiato per essere un discorso globale a pieni polmoni, capace di dare respiro alle tensioni dell’umanità e, insieme, essere partecipe delle sofferenze e delle opportunità della vita quotidiana degli italiani. Dai campi di battaglia sul nostro uscio di casa al lavoro sottopagato, alle liste d’attesa negli ospedali, allo smarrimento dei giovani che si sentono fuori posto, alla piaga della violenza più odiosa: quella sulle donne. Dunque, niente politichese, nessun riferimento alla politica spicciola, niente cenni ai grandi temi delle riforme. Ecco invece, spiegato in modo semplice, la lettura del presente con la persona umana al centro: nel bene e nel male.

Nel fil rouge della pedagogia di Mattarella, cioè la ricerca della pace, siamo noi a muovere la Storia. La pace è scomposta e ricomposta su più tavole di valori, su quei requisiti etici di cui si avverte la necessità. Non solo assenza della guerra, ma l’asticella alza il livello della sfida in nome del principio di realtà, non del buonismo. Sul piano geopolitico significa respingere la competizione permanente fra Stati, a un livello più prossimo alla gente comune vuol dire educare alla cultura della pace. Mentalità e paradigma nuovi: c’è bisogno che il sentimento della pace si identifichi con i gesti e il linguaggio della vita. «Dipende anche da noi», avverte il presidente chiamando così a raccolta la responsabilità individuale. «Pace, nel senso di vivere bene»: ecco la declinazione che ricongiunge alla convivenza civile, alla capacità di ascolto del prossimo che deve prevalere sul «culto della conflittualità» e sulla «cultura dello scarto», efficacemente definita da Papa Francesco, che prospera tra noi. Essenziale è disarmare un linguaggio tossico nell’era dei social e in quel grande balzo storico rappresentato dall’intelligenza artificiale, rivoluzione tecnologica che deve restare umana. Toccante il passaggio sui femminicidi, là dove ai giovani ricorda che l’amore non è possesso e dominio, bensì dono e gratuità. I diritti vanno affermati e gli strumenti per ricucire il tessuto umano ci sono. Non a caso Mattarella richiama un classico del costituzionalismo (i diritti umani sono nati prima dello Stato) affidandosi come sempre al dettato della Costituzione che l’anno scorso ha compiuto 75 anni.

Il punto centrale, la patologia che persiste, il burattinaio che governa l’inconscio è la rassegnazione o l’indifferenza. «Non dobbiamo chiuderci in noi stessi per timore che le impetuose novità che abbiamo davanti portino solo pericoli»: questa è la bussola per orientare la direzione dei mutamenti dalla parte giusta. Possiamo vedere il discorso del presidente (il nono di fine anno da quando è al Quirinale e forse il più significativo per lo spettro dei concetti e la tonalità) come un prontuario di nozioni civiche che illustrano il valore della democrazia in tempi calamitosi. Prendendo a prestito l’analisi dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), la tendenza di quest’anno - dopo due anni di guerra in Ucraina e il conflitto fra Israele e Hamas - vede emergere nuove crisi e punti di rottura: la «grande frammentazione» sul piano economico, geopolitico, sociale e tecnologico.

Più di 4 miliardi di persone nel pianeta sono chiamati alle urne nel 2024 in quella che è ritenuta la sfida fra democrazie e autocrazie. A giugno si vota per le Europee, a novembre tocca all’America dove il pericolo è che l’eventuale ritorno di Trump non appartenga alla fantapolitica. Restando a noi, l’Italia assume la presidenza del G7, il club delle grandi economie, e Giorgia Meloni ha già detto in questi giorni che l’anno appena iniziato sarà più difficile di quello trascorso. Servono nervi saldi, un atterraggio morbido sulle grandi fratture che dividono e la buona pratica quotidiana di quella sensibilità costituzionale ribadita dal presidente Mattarella.

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