La sveglia di Trump e l’Europa in ritardo

MONDO. Il ricevimento regale in Alaska offerto da Trump a Putin, un ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra, ci aveva lasciato allibiti.

La successiva accoglienza a Washington, inaspettatamente cordiale riservata agli alleati europei (fino al giorno prima trattati da nemici), ci ha poi confortato. Abbiamo pensato che la solidarietà atlantica di Trump fosse rispuntata sotto la coltre di insulti («siete parassiti, scrocconi, patetici»), elargiti agli storici partner della Nato nei suoi primi mesi di presidenza. La comprovata aleatorietà dei suoi pronunciamenti doveva mettere in allerta la delegazione europea sul fatto che la buona accoglienza era dovuta soprattutto (o solo) al galateo diplomatico. L’interesse a imbonirsi degli interlocutori, dei quali ha bisogno per intestarsi il successo della pace in Ucraina, suggeriva di usare le buone maniere.

Le alleanze in bilico

Ciò non toglie che han fatto bene i sette premier del Vecchio continente non solo a fargli visita a Washington, ma anche a blandirlo per cercare di ingraziarsi, se non la solidarietà, almeno una sua buona disposizione nei loro confronti. Non c’era da farsi illusioni sulla possibilità di strappargli un appoggio anche solo per ricontrattare, tantomeno per rigettare le condizioni capestro che Putin continua a porre per metter fine alla sua aggressione. Il rispetto del galateo diplomatico non può oscurare la realtà dei fatti. Da Anchorage non è venuta nessuna delle tante buone nuove attese: nessun cessate il fuoco, nessuna sanzione alla Russia. Lo zar voleva, vuole ed ha ottenuto quello che gli preme: guadagnare tempo, scongiurare sanzioni, avere mani libere per proseguire il suo disegno.

La scelta di Trump

Questo per guardare all’immediato. Ci sono poi tre dati di fondo inoppugnabili che riguardano l’indirizzo politico dell’amministrazione Trump. Primo: il tycoon ragiona solo in termini brutali di convenienza economica e finanziaria. Di principi, valori, legami di solidarietà non fa - e non vuol sentire - parola. La sua è un’impostazione imperialistica. Secondo: nessun organismo internazionale, Onu, trattato di alleanza, Nato, vincolo sovranazionale, Corte penale internazionale, devono intralciare le sue ambizioni. Fine del multilateralismo, via libera all’unilateralismo. Terzo: l’alfiere di Make America Great Again porta all’estreme conseguenze l’indirizzo che da ormai tre presidenze (Obama, Trump I, Biden,) l’America segue in politica estera. L’interesse degli Usa è di presidiare lo scacchiere dell’Estremo oriente, arginare la Cina, contrastare la sua ambizione a divenire il punto di riferimento di un nuovo ordine mondiale. Poco, pochissimo interesse nutre a mantenere nel Vecchio continente il suo presidio alla minaccia della confinante Russia.

Il monito di Draghi all’Europa

Con grave ritardo e con non poche contraddizioni, le cancellerie europee hanno preso coscienza che non possono più far conto sugli Usa per la difesa dei loro Paesi. L’Occidente come comunità politica che condivide un patrimonio di valori non esiste più. Passare dalle parole ai fatti, però, il passo è lungo e impervio. I governi europei faticano a far proprio il monito di Draghi, da lui ripetuto a Rimini, Whatever it takes: «fare tutto il necessario» per salvare l’Europa. Per esistere come soggetto di politica internazionale, il Vecchio continente deve dotarsi delle necessarie risorse: economiche, diplomatiche, soprattutto militari. Non c’è sovranismo che tenga capace di garantire ad un singolo Stato europeo di assicurarsi un posto nel consesso mondiale.

Più ancora in ritardo dei governi è l’opinione pubblica. Non vuol prendere atto che l’Europa (non parliamo poi dei singoli Stati) è un vaso di coccio tra vasi di ferro: Cina, America, Russia, presto anche l’India. Pensa giustamente con orrore alla guerra. Disdegna le armi. Non dice, però, come possa difendere la sua libertà, la sua democrazia, il suo benessere in un mondo popolato, non da pecore, ma da lupi, con Trump e Putin che se la intendono per spartirsi zone d’influenza, a danno dell’Ucraina e della stessa l’Europa.

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