La voce dell’Europa più debole del suo peso

MONDO. Il Consiglio europeo è formato dai capi di Stato o di Governo dei 27 Stati membri dell’Unione Europea, dal presidente del Consiglio europeo (Charles Michel) e dal presidente della Commissione europea (Ursula von der Leyen).

Ed è, dicono i testi, l’organismo che definisce le priorità e gli orientamenti politici della Ue. Insomma, è il luogo dove i massimi rappresentanti dei diversi Paesi decidono dove vogliono andare e come vogliono andarci. Ieri sera, mentre il Consiglio europeo si riuniva, succedevano cose come queste. Hamas sparava altre decine di razzi contro le città di Israele, Tel Aviv compresa. Le forze armate dello Stato ebraico compivano incursioni mirate nella Striscia di Gaza e, tra un bombardamento e l’altro, continuavano a eliminare uno a uno i capi dell’ala militare di Hamas: l’ultimo è stato Taysir Mubasher, comandante del Battaglione Nord. A Mosca nel giro di un’ora sbarcavano una delegazione di Hamas e il vice-ministro degli Esteri dell’Iran, per parlare di possibili (o impossibili) tregue e della liberazione degli ostaggi. Cinquanta dei quali, aveva appena fatto sapere Hamas, sarebbero morti negli scontri di questi giorni.

A fronte di tutto questo, la riunione dei politici più potenti d’Europa ha prodotto due conclusioni. La prima è la disponibilità dell’Unione Europea a «rivitalizzare il processo politico sulla base della soluzione a due Stati» e «l’istituzione di una conferenza internazionale di pace da tenersi al più presto». La seconda, l’invito a istituire «corridoi umanitari e pause per esigenze umanitarie», dove le «pause» dovrebbero interrompere i bombardamenti di Israele e quelli di Hamas. Se pare poco è solo perché in effetti è proprio poco. Buone intenzioni, questo è sicuro. Ma nulla che possa davvero incidere su una situazione che peraltro tutti i Governi, indistintamente, giudicano pericolosa anche per la stessa Europa, che potrebbe patire conseguenze disastrose (sul piano politico ed economico, per non parlare di un’ipotetica ripresa del terrorismo) da un allargamento del conflitto ma anche da una reazione appena energica dei Paesi arabi, che detestano Hamas ma non possono e non vogliono abbandonare i palestinesi.

Di buone intenzioni finite male è lastricata la Storia. E che il Consiglio di ieri sera non avrebbe prodotto una posizione europea forte e unitaria si era capito già alla vigilia, quando si erano delineate due posizioni inconciliabili: una, sostenuta soprattutto dalla Spagna, che voleva chiedere una vera tregua, considerando ormai troppo alto il prezzo pagato in vite umane; l’altra, con Italia e Germania in prima fila, che accettava al massimo le suddette «pause», in nome del diritto di Israele a difendersi e, in questo caso, a liquidare per sempre il pericolo Hamas. Così si è arrivati al compromesso: solo «pause», con la Spagna e i pochi altri Paesi che volevano la tregua gratificati dalla richiesta di una conferenza internazionale di pace.

I corridoi umanitari si faranno, perché nemmeno a Israele conviene scontrarsi con tanti Paesi che l’appoggiano. La conferenza di pace no, perché non si vede quale convenienza avrebbero i protagonisti ad accettarla. Israele dalle conferenze non ha mai ricavato nulla, mentre dall’occupazione dei territori palestinesi, su cui Usa ed Europa hanno sempre chiuso un occhio, ha ricavato molto. Hamas perché la guerra, il martirio, l’idea folle di poter prima o poi cancellare Israele sono la sua unica ragione sociale. Restano Abu Mazen e l’Autorità palestinese che, come si vede dagli eventi di queste settimane, contano poco e nulla possono.

Il problema vero, però, è che l’Unione Europea, a dispetto del suo peso (il Pil Ue è più o meno pari a quello Usa) e del suo ruolo strategico, non riesce a spendere una parola importante, significativa, pesante, in nessuno dei conflitti che affliggono questi nostri anni. Non l’ha fatto per la Siria e non l’ha fatto per la Libia. Merkel e Hollande ci hanno spiegato che per otto anni (2014-2022) non hanno lavorato per la pace nel Donbass ma per armare un po’ meglio l’Ucraina. Per l’Africa, sempre più «occupata» dalle manovre di Turchia, Russia e Cina, poco o nulla. Per le migrazioni, che di quei conflitti sono in larga parte figlie, idem. Abbiamo un problema. E continuare a negarlo servirà solo ad aggravarlo.

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