L’Europa assente ma Gaza ci riguarda

L’ANALISI. Piccoli passi individuali, ma insufficienti a dire che l’Europa c’è. Gaza brucia e l’istituzione Unione europea ha il profilo basso nel cortile di casa, quel Mediterraneo allargato dove si gioca tanta parte degli interessi e del nostro futuro.

E dove stiamo perdendo la Libia insieme con l’area francofona del Sahel a beneficio di chi contesta il vecchio ordine a guida occidentale. Ai 27 membri non bastano le alchimie contabili. Lo ricorda Mario Draghi: senza un’Unione più profonda, nella politica estera, nella difesa, nell’economia, la Ue non sopravviverà se non come mercato unico. Qualcosa, certo, si vede. Macron ha organizzato in fretta una conferenza sull’aiuto umanitario a Gaza, chiamando a Parigi un’ottantina di rappresentanti di Stati e ong: una società, quella francese, che ha il più alto numero di ebrei e arabi in Europa.

C’è stato soprattutto il memorabile discorso del vice cancelliere, il verde Robert Habeck, che ha affermato come la sicurezza d’Israele sia la ragion di Stato tedesca. Tuttavia l’Ue (fra i principali donatori internazionali della popolazione palestinese) non è pervenuto come soggetto politico, smentendo quella «Europa geopolitica» promessa da Ursula von der Leyen al momento d’insediarsi alla guida della Commissione. Appare una certa insignificanza là dove simili tragedie sfidano a un salto di qualità e ad una visione autonoma. «Non possiamo più accontentarci di un’Europa minima», avverte l’ex ministro Marco Minniti: poco influente sugli sviluppi della crisi e insieme più esposta all’onda d’urto del terrorismo, gravata infine da un approccio difensivo che riduce un quadrante martoriato al recinto della dimensione dei flussi migratori.

I leader europei si sono mossi in ordine sparso. Prima hanno trovato una difficile mediazione sulle pause umanitarie nella Striscia chieste dalla Giordania, poi all’assemblea Onu l’Europa s’è divisa in tre: una a favore, una astenuta, un’altra contraria. Se l’invasione russa dell’Ucraina presentava minori difficoltà nella distribuzione delle responsabilità, la questione israelo-palestinese vista come un infinito processo storico è più complicata: per il suo peso storico, per quel che significa l’Olocausto, per combinare l’«equazione impossibile», ossia la sicurezza d’Israele, l’esistenza stessa dello Stato ebraico, e il futuro dei palestinesi. Il lessico appare imbarazzato perché deve essere sorvegliato su un terreno insidioso. Contano le sfumature, il colore grigio rispetto ai toni forti. Ogni Paese ha la propria sensibilità su un tema che da sempre divide politica e opinione pubblica, accendendone gli animi, con la pretesa di semplificare al massimo (o con Israele o con la Palestina) ciò che è complesso: l’uno tiene l’altro in un’obbligata convivenza concettuale. E che adesso incrocia anche antisemitismo e anticapitalismo, per cui l’incendio nella Terra Santa agisce da moltiplicatore delle rivendicazioni del Sud globale che chiede un posto a tavola nel consesso internazionale.

L’Europa non è stata pensata per il gioco duro, e oggi siamo oltre: allo scempio del diritto internazionale. Se ora il vecchio continente esprime stagnazione diplomatica, negli anni ’90 è stato fra gli attori della messa a terra degli accordi di Oslo fra Rabin e Arafat. La diplomazia parallela dell’Italia, a suo tempo non sempre capita, ha prodotto una chimica positiva e ha costruito ponti.

Nei momenti più creativi l’Europa ha giocato la carta del «soft power»: cultura, potere d’attrazione, pratiche politiche inclusive. La capacità di plasmare le preferenze altrui. Rabin e Arafat lo hanno saputo fare, vedendo ciò che ai più era invisibile.

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