Maggioranza in tensione, le difficili mediazioni

Italia. Molti hanno notato, nell’ultima rilevazione degli umori degli elettori, che il partito di Giorgia Meloni ha subìto per la prima volta da tanto tempo una piccola ma inquietante frenata: - 0,7%. Poco, pochissimo, certo, ma significa scendere appena sotto la trionfale soglia del 30%, quella che anche simbolicamente stabilisce il definitivo predominio di Fratelli d’Italia su Lega e Forza Italia, partiti in crisi elettorale e non solo.

Naturalmente il dato non va enfatizzato, i tempi sono duri e governare è difficile, oltretutto per una classe politica, quella della destra meloniana, che dal governo è fuori dai tempi dell’ultimo governo Berlusconi, figuriamoci. Però lo scricchiolio lo si è inteso a Palazzo Chigi, e tanto è bastato per far accendere la luce rossa. Giorgia Meloni, criticata dai suoi alleati di voler fare troppo da sola, nell’ultimo Consiglio dei ministri ha invocato maggiore coordinamento e minore loquacità e nello stesso tempo ha assicurato al presidente della Camera Lorenzo Fontana che non si eccederà in decreti legge.

Il punto però non è questo, semmai è che le difficoltà del momento stanno provocando una pericolosa frattura tra le promesse elettorali e le decisioni nero su bianco. È successo con il Pos, poi con i «condoni» delle cartelle elettorali, di seguito con le accise sulla benzina e ora il caso rischia di ripetersi con i concessionari degli stabilimenti balneari, da sempre tenuti in grande considerazione dal centrodestra. La promessa fatta a suo tempo è di annullare il termine di fine 2023 per la proroga delle concessioni, stabilito dal governo Draghi in accordo con Bruxelles e in ossequio alle sentenze di tutte le magistrature. Ora il governo starebbe tentando di ottenere dalla Commissione europea una qualche forma di deroga che però andrebbe in contraddizione con le norme sulla concorrenza indispensabili per il Pnrr (esattamente come quelle sul Pos contraddicevano la lotta all’evasione). Molti pensano che il ministro Raffaele Fitto, incaricato della delicata trattativa, non caverà un ragno dal buco provocando così un brusco contraccolpo in una categoria che da anni fedelmente vota per i partiti oggi al governo.

Ma le vere preoccupazioni nascono dalla situazione economica, dall’inflazione, dall’aumento dei tassi di interesse, dalla diminuzione della produzione industriale e insomma dalla frenata dell’economia che potrebbe incendiare il malcontento sociale già agitato dalle conseguenze della pandemia. Tutto richiederebbe la massima compattezza politica della maggioranza ma Meloni guarda con una certa diffidenza le mosse degli alleati sempre pronti a cogliere una debolezza della premier o una sua contraddizione. Come quella che sta emergendo dall’operato del Guardasigilli Carlo Nordio, eletto sì da Fratelli d’Italia ma garantista come i berlusconiani e non certo come i meloniani. Senza contare il tema delle riforme: tra il presidenzialismo propugnato dalla Meloni e l’autonomia differenziata della riforma scritta da Calderoli la coniugazione non sarà semplice: l’«Adesso Salvini si fermi» detto da un pezzo da novanta della destra come Fabio Rampelli certo non è piaciuto a via Bellerio.

Fino al voto per le regionali in Lombardia e nel Lazio tutto questo sarà motivo di fibrillazione della maggioranza e di inevitabili tensioni. È stata del resto proprio Meloni a riconoscere il valore politico della competizione, primo test sul governo e sulla premier dopo le elezioni di settembre. Queste sono le preoccupazioni dell’inquilina di Palazzo Chigi, assai più rilevanti di quelle che le procurano le opposizioni, divise e in lotta tra loro o totalmente reclinate, come il Pd, su un contorcimento congressuale molto doloroso e difficilmente comprensibile all’esterno.

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