
(Foto di Ansa)
MONDO. Prima di tutto le prossime tappe. Ieri la riunione del Governo di Israele, ancora in corso a tarda ora, per dare il benestare alla firma dell’accordo stipulato con Hamas attraverso la mediazione di Egitto, Qatar e Turchia.
Ventiquattr’ore dopo, l’inizio del cessate il fuoco. Dopo 72 ore il rilascio degli ostaggi, una ventina ancora vivi e una trentina di corpi, mentre intanto le truppe di Israele dovranno ritirarsi da circa il 30% della Striscia. Mentre Hamas libererà gli ostaggi, Israele dovrà rimettere in libertà 250 militanti palestinesi condannati all’ergastolo e 1.700 altri palestinesi detenuti dal 7 ottobre del 2023 in poi. Le modalità concrete adottate dalle parti meritano di essere ricordate, intanto perché sono state oggetto di un attento, quasi esasperato bilanciamento, e poi perché alla loro attuazione è legato non solo il futuro politico del Medio Oriente ma anche la sopravvivenza di migliaia di persone.
Le inaudite sofferenze patite dagli ostaggi sono ben note. Ma forse non tutti sanno che in un solo mese 130 palestinesi sono stati ammazzati nelle cosiddette «zone sicure» designate dalle stesse truppe israeliane. La sequenza dei diversi passaggi deve quindi essere cronometrica, perché qualunque intoppo potrebbe decidere della vita di centinaia di persone. Nell’immediato ma anche nel prossimo futuro, perché dal successo dei primi passi dipenderanno l’ingresso nella Striscia degli aiuti umanitari e poi le opere di ricostruzione.
Molti hanno sottolineato il fatto che il Piano Trump è sbilanciato a favore di Israele, perché si propone di affidare la gestione futura della Striscia a una specie di super-comitato diretto da Tony Blair (già protagonista dell’invasione dell’Iraq nel 2003 e poi superlobbysta di lusso ben visto da Trump e Netanyahu), riducendo il ruolo dei palestinesi a quello di meri esecutori di ordini altrui. C’è del vero ma la priorità assoluta era interrompere il massacro dei gazawi, che peraltro avveniva con l’appoggio degli Usa, nell’indifferenza degli europei oltre che dei Paesi arabi. Quali speranze c’erano per i palestinesi, al di là dell’indignazione di strati sempre più larghi ma impotenti dell’opinione pubblica? Non è un caso, infatti che Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, abbia definito il Piano Trump «un’importante opportunità per stabilire un percorso politico credibile» e che il Cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme dei latini, profondo conoscitore di Israele e delle realtà palestinesi, abbia definito l’accordo firmato in Egitto «un primo passo necessario che porta un’atmosfera di fiducia» e «una nuova atmosfera per la continuazione dei negoziati».
Perché se i primi passi sopra descritti già sono molto complicati, quelli successivi rischiano di esserlo ancora di più. Ricostruire la Striscia: obiettivo lodevole ma chi lo farà? Con quali soldi? E per farci vivere chi? Per fortuna il Piano Trump non prevede la deportazione, volontaria o meno, dei gazawi, che però avranno bisogno di lavoro, scuole, strutture sanitarie, in poche parole di tutto ciò che è stato distrutto dalle bombe di Israele. E ancora: se dalla gestione della Striscia sarà estromessa qualunque partecipazione di Hamas, Israele manterrà il blocco di terra, aria e mare in vigore dal 2006?
Non solo. Come abbiamo già avuto occasione di notare, il Piano Trump prevede esplicitamente che «mentre procede lo sviluppo di Gaza e quando il programma di riforma dell’Autorità Nazionale Palestinese viene portato avanti fedelmente, potrebbero finalmente crearsi le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e lo Stato palestinese, che riconosciamo come l’aspirazione del popolo palestinese». Tutto questo, se avverrà, non avverrà domani. Ma nel frattempo quante possibilità ci sono che i vari Netanyahu, Ben Gvir e Smotrich cambino idea dopo aver dedicato la vita a impedire la nascita di uno Stato palestinese? Non potendo contare sui governi europei, dobbiamo accontentarci di sperare che Trump resti vigilante e che l’opinione pubblica israeliana riesca a imporre, con il voto, un cambio di rotta a una politica basata sulla discriminazione e sulla violenza. Domenica Trump sarà a Gerusalemme e parlerà alla Knesset. Sarà una prima occasione per sondare gli umori di Israele.
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