Ora il caso
Regeni
non è solo
italiano

Percorrendo due strade diverse, la procura di Roma prima e la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni, sono giunte alla stessa conclusione: ad uccidere il giovane ricercatore universitario friulano sono stati gli apparati di sicurezza egiziani e in particolare ufficiali della National security agency (Nsa). Ma la Commissione si spinge oltre: i responsabili dell’assassinio sono al Cairo, probabilmente anche all’interno delle istituzioni guidate dal presidente Abdel Fattah al-Sisi. Il rapimento e le torture mortali avvennero tra gennaio e febbraio 2016.

Regeni fu portato nel carcere della Nsa, nella sede del ministero dell’Interno nella capitale egiziana, dal quale ne uscì morto. Il corpo fu trovato sul ciglio di una strada. All’inizio le autorità cercarono di accreditare la tesi dell’incidente, il ricercatore universitario - che stava lavorando sui sindacati locali indipendenti - travolto da un’auto pirata. Ma l’ostinazione dei genitori Claudio e Paola nel chiedere la verità sul figlio ruppe il muro dell’indifferenza che avvolgeva la tragedia anche in Italia. «La mancata comunicazione da parte egiziana del domicilio degli imputati (quattro ufficiali della Nsa, ndr), nonostante gli sforzi diplomatici profusi al fine di conseguirla, non si risolve nella mera “fuga dal processo” - si legge nella relazione della Commissione - ma sembra costituire una vera e propria ammissione di colpevolezza da parte di un regime che ha considerato la cooperazione giudiziaria alla stregua di uno strumento dilatorio».

La stessa relazione contiene due novità di rilievo: oltre ad averlo ucciso, gli apparati egiziani non hanno voluto salvare Giulio. Nei nove giorni di prigionia e torture, hanno mentito alla nostra diplomazia, alla nostra intelligence e anche a quelle dei Paesi esteri. La seconda è che il Parlamento in qualche modo mette in mora tutti i governi che si sono alternati in questi anni a Palazzo Chigi: sottolinea infatti come «se nei primi due anni alcuni risultati sono stati faticosamente e parzialmente raggiunti, anche in virtù dell’intransigenza mantenuta dall’Italia, negli anni successivi non sono venute dal Cairo altro che parole a livello politico». E propone due azioni. Portare l’Egitto davanti al Tribunale internazionale dell’Aja per aver violato la convenzione Onu sulla tortura e un intervento legislativo interno, per superare l’impasse che, di fatto, ha messo il processo su un binario morto: una legge per impedire a Stati esteri di sottrarsi al processo con il sistema delle mancate notifiche agli indagati.

Ma nei report che costantemente i servizi segreti italiani hanno consegnato ai nostri governi emerge poi la figura di Mahmoud, figlio del presidente al-Sisi. Capo degli 007 egiziani, non poteva non essere informato della vicenda Regeni. In rotta col padre, ambirebbe a prenderne il posto e lo avrebbe tenuto all’oscuro del caso del ricercatore italiano. Ma venutone a conoscenza, il presidente doveva nascondere di essere stato ignorato da un pezzo del suo stesso potere e nel caso specifico da suo figlio, per non dimostrarsi debole. Lo stesso Mahmoud sarà poi ridimensionato nella guida del Servizio centrale di intelligence. L’Egitto non avrebbe fornito collaborazione anche per non fare emergere lo scontro interno. Al punto di boicottare ogni passaggio dell’inchiesta, compresa la semplice restituzione degli effetti personali della vittima.

Ma l’omicidio Regeni assume ora le dimensioni di un caso internazionale non solo per un eventuale ricorso all’Aja. L’azienda francese «Nexa Technologies» è infatti sotto indagine per complicità in atti di tortura e sparizioni forzate per aver venduto all’Egitto apparecchiature di sorveglianza informatica che avrebbero consentito al regime di rintracciare gli oppositori e di «seguire» anche Regeni. Colpisce come da parte del governo di Parigi, nostro alleato, sia mancato un controllo preventivo.

Ma non abbiamo i titoli per fare prediche ai cugini d’Oltralpe. Continuiamo ad essere tra i principali partner economici e commerciali della dittatura di al-Sisi, oltre ad averle venduto armamenti per miliardi di euro. L’ostinazione nel cercare la verità sull’uccisione di Giulio non è idealismo da anime belle ma necessità di tutelare con orgoglio il nostro Paese e un suo figlio. La realpolitik delle alleanze strategiche e degli affari fino a che punto può spingersi rinunciando a principi di civiltà? Vale per l’Egitto, ma anche per la Libia dove i migranti subiscono violenze e torture. È una domanda che non possiamo eludere.

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