Per la diplomazia sforzo titanico

MONDO. La volta in cui israeliani e palestinesi hanno trovato un’intesa è avvenuto quando i presidenti americani sono scesi in campo mettendoci la faccia, con la loro forza moderatrice per disarmare gli opposti estremismi.

Biden, per esperienza, lo sa meglio di altri e lo vediamo con l’attivismo diplomatico della Casa Bianca in queste ore. Sono tante le lezioni apprese dalla Storia e vanno riconsiderate in una fase in cui la pax americana post 1945 è in difficoltà e mentre sono in cantiere i tentativi delle autocrazie di spostare gli equilibri del potere globale. Il presidente americano, nel richiamare Israele al rispetto del diritto internazionale e umanitario, ha aggiunto che vanno evitati gli errori del passato. Il ritiro da Kabul nel 2021, ad esempio, esprimeva già una critica radicale alla politica della Casa Bianca dei 20 anni precedenti. Quindi il ripensamento è in corso e, per riflesso, pianificare il dopo Gaza diventa decisivo. Le guerre in Iraq e in Afghanistan hanno smentito l’impatto risolutivo dei conflitti. Come ha scritto un autorevole politologo americano, Charles A. Kupchan, una forza militare superiore assicura solo di rado il raggiungimento dell’obiettivo politico voluto. Pensare al «dopo» significa anche non replicare quel che si è fatto in Iraq e in Libia, dove lo smantellamento delle istituzioni precedenti ha portato al caos.

I vuoti però vanno colmati e vediamo così il ritorno dell’America in quel Medio Oriente in cui era parsa in parziale disimpegno. L’azione terroristica di Hamas, nella sua crudeltà, ha riportato in primo piano il problema dei problemi: il diritto d’Israele a difendersi e allo stesso tempo quello dei palestinesi ad avere un futuro, urgenze storiche fin qui messe ai margini nell’illusione di poter gestire una situazione conflittuale ritenuta a bassa intensità rispetto alla guerra in Ucraina e al contenzioso con la Cina. La storia umana di questo lembo di terra disegna un grafico altalenante: 4 guerre fra israeliani e arabi, 2 invasioni del Libano e altrettante Intifada, 4 attacchi da Gaza. Ogni sequenza bellica ha gettato le basi per quella successiva. Gli accordi di Oslo nel ’93 fra Rabin e Arafat, con il patronage di Clinton, hanno segnato il punto di maggior compromesso, ma il processo di pace s’è arenato per poi essere affondato.

La conclusione della Guerra fredda rappresentava un’occasione unica. «Due Stati per due popoli in pace e sicurezza» era la formula di Oslo, oggi rilanciata dalla comunità internazionale (insieme all’ipotesi di una forza multinazionale come tappa intermedia per definire lo status di Gaza) dopo aver sottovalutato ciò che stava accadendo da anni nella Striscia e in Cisgiordania. Quella che appare una scelta ragionevole e auspicabile, fino a che punto può essere attuata? Nei sondaggi del 2022 pubblicati in Israele e Palestina la maggior parte delle persone non s’è mostrata favorevole alla soluzione dei due Stati. In questi anni le relazioni fra Israele e diversi Paesi arabi sono migliorate, ma peggiorate quelle con i palestinesi. Gli accordi si fanno fra governi, mentre la piazza araba è ostile: la battaglia mediatica e culturale si svolge in parallelo a quella sul terreno e qui l’Occidente rischia di perderla in casa. Molto dipende dall’evoluzione del disastro umanitario e dal comportamento militare di Tel Aviv. Kissinger a suo tempo diceva che la pace o la guerra non si fa senza l’Egitto, ma dagli anni ’90 s’è definitivamente consolidato un nuovo soggetto politico che ha mutato il quadro: il radicalismo fondamentalista. Sono profondamente cambiate le due società.

La realtà demografica negli ultimi decenni ha alterato il volto di questi territori dove ora vivono 7 milioni di ebrei israeliani e 7 milioni e mezzo di arabi palestinesi (5 milioni dei quali residenti nelle terre occupate da Israele nel ’67, Cisgiordania e Gaza). Israele, nel rivivere lo stato d’insicurezza esistenziale che ha preceduto la guerra dei Sei Giorni, soffre l’uscita di scena di una leadership pragmatica, la generazione dei padri fondatori: quella dei Rabin e dei Peres. La nuova immigrazione, specie quella russa all’indomani della fine dell’Urss, ha spostato a destra l’asse politico. Nel frattempo si sono intensificati gli insediamenti dei coloni. In campo palestinese la seconda Intifada di inizio secolo ha visto la rivolta di una generazione di giovanissimi, che si ritiene vittima di un’ingiustizia storica e che ha conosciuto solo il regime d’occupazione israeliano.

La stessa crescita economica degli anni ’90 seguita agli accordi di Oslo, pur breve e relativa dato il contesto, non ha pagato in termini politici: non c’è presunto benessere che possa sostituire l’aspirazione all’autodeterminazione. Gli eredi di Arafat, cioè l’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen che controlla una parte della Cisgiordania, esprimono una gerontocrazia screditata, scavalcata dalla piazza e in seria crisi di rappresentanza. Nonostante questo, la leadership palestinese resta parte essenziale per imbastire un’ipotetica soluzione ed è interesse della comunità internazionale evitarne il collasso. Proprio perché il quadro appare «impossibile», fra Israele costretta alla legittima difesa e i Paesi arabi obbligati a contestarne l’azione, alla diplomazia è richiesto uno sforzo titanico, adeguato al peso di una simile tragedia umana e geopolitica: riprendere l’orizzonte negoziale finora mancato, nel segno dell’uguaglianza fra israeliani e palestinesi.

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