Ritorna il Medio Oriente: Biden cerca sponde, ma è Putin a trovarle

La crisi ucraina, con tutte le sue ricadute internazionali, ha di colpo riportato il Medio Oriente al centro della scena. Ma, una volta tanto, nella condizione di dettare le condizioni. Lo abbiamo visto bene con la visita di Joe Biden in Arabia Saudita: al di là della pompa e della diplomazia, il presidente Usa è andato a chiedere ai sauditi di mettere più petrolio nelle vene dell’economia mondiale, consentendo ai prezzi dei carburanti di non crescere ancora e così di calmare i consumatori-elettori americani, che in autunno potrebbero mandare un duro messaggio alla Casa Bianca con le elezioni di mezzo mandato.

Biden, per parere unanime degli osservatori, ha ottenuto poco ed è tornato a casa. Ora tocca a Vladimir Putin, con una missione mediorientale doppia: arriva in Iran dove, però, incontra anche il leader turco Recep Tayyep Erdogan. Due fronti quindi da tener d’occhio. Qui Putin pare destinato a mettere a frutto una politica regionale che, negli anni, è stata oggettivamente più accorta di quella degli americani. Se Biden ha raccolto poco in Arabia Saudita, per fare un esempio, è anche perché il re e il principe ereditario Mohammed bin Salman, vero uomo forte del Paese, non hanno voluto tradire gli accordi a suo tempo stipulati nel cosiddetto Opec+ (cioè l’Organizzazione dei Paesi produttori di petrolio più la Russia) e che Mosca ha sempre rispettato. E in Siria la Russia putiniana, pur schierata con Bashar al-Assad, è sempre stata molto attenta a considerare le «esigenze» della Turchia di Erdogan, senza rompere nemmeno quando, nel 2015, i caccia turchi fecero precipitare un velivolo russo. Anzi, si dice che siano stati proprio i servizi segreti russi ad allertare Erdogan in occasione del successivo tentativo di colpo di Stato contro di lui.

Per quanto riguarda i rapporti tra il Cremlino e Teheran, i media americani insistono molto sul (vero o presunto) contratto per la fornitura alle truppe di Mosca di 300 droni da combattimento di produzione iraniana. Ma assai più importante è, per una Russia che deve compensare il peso enorme delle sanzioni, l’International north-south transport corridor (Instc), la via di trasporto multimodale (nave, ferrovia e strada) che, attraverso India, Iran e Azerbaigian (Paese, questo, su cui la Turchia esercita molta influenza), dovrebbe consentire uno sbocco importante sui mercati internazionali. Intanto la Borsa di Teheran ha cominciato a trattare rial e rublo insieme. Non è la fine del dollaro ma male non fa.

E poi, certo, c’è Erdogan, il più astuto protagonista di questa fase delle relazioni internazionali. La Turchia sta ammassando truppe nel Nord della Siria, è facile immaginare che i limiti e le prospettive della prossima spedizione contro i curdi in territorio siriano sia oggetto dei colloqui di queste ore. E poi c’è il problema del grano ammassato nei porti dell’Ucraina, tanto desiderato dai Paesi del bacino del Mediterraneo ma bloccato dalle strategie della marina militare di Putin. Il leader russo è già il paria della comunità internazionale, semmai con il raccolto record di quest’anno (pare il migliore di tutti i tempi per la Russia, 130 milioni di tonnellate) può guadagnarsi qualche benevolenza nei Paesi in via di sviluppo. Non ha quindi alcuna urgenza di arrivare a un accordo per «liberare» il grano ucraino. Però può aiutare Erdogan a ottenere un successo diplomatico agli occhi dell’Europa e si sa, una mano lava l’altra, verrà il momento per farsi restituire il favore. In Ucraina si combatte e si muore, spesso si muore senza nemmeno combattere, com’è toccato a tanti civili. Ma il grande gioco, fuori, non si ferma mai.

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