Se il Cremlino tiene in pugno milioni di poveri

È normale e accettabile che uno Stato controlli l’export di un Paese che ha invaso, di un bene alimentare indispensabile per milioni di persone? Non dovrebbe esserlo. «Ma è la guerra» dicono quelli che hanno sempre una giustificazione pronta per le decisioni adottate dalla Russia.

Ma anche nei conflitti ci sono dei limiti, normati dal diritto umanitario internazionale: ad esempio non sarebbe lecito sparare deliberatamente sui civili o distruggere edifici che non hanno un utilizzo militare. O infrastrutture vitali per la popolazione come centrali elettriche o acquedotti. Invece in Ucraina i limiti sono stati ampiamente superati già nei primi giorni dell’invasione. Il Cremlino ha deciso ora di sospendere a tempo indeterminato il tanto sospirato accordo sul grano di Kiev, raggiunto sotto l’egida Onu in Turchia e siglato il 22 luglio scorso. È una ritorsione dopo i raid di sabato scorso con droni nella baia di Sebastopoli, a danno di quattro navi russe. Mosca ha denunciato «un massiccio attacco» che sarebbe stato condotto dagli ucraini con l’assistenza del Regno Unito. Ma Kiev e Londra hanno respinto le accuse, rinfacciando ai russi di aver utilizzato un «falso pretesto» per tornare a ricattare il mondo agitando lo spettro della crisi alimentare. L’Ucraina è una superpotenza agricola che oltre a coprire il proprio fabbisogno, sfamava prima del conflitto 400 milioni di persone povere (oggi sono 7 milioni) nel Nord Africa, in Medio Oriente e in Asia con grano, cereali e semi di girasole. Ma esportava anche in Occidente, dove ora si rischia un’impennata record dei prezzi dei generi alimentari.

L’accordo riguardava inizialmente il grano fermo nei silos dei porti ucraini di Odessa, Chernomorsk e Yuzhny. Tra le condizioni spiccava la discussa centralità di coordinamento garantita alla Turchia. L’intesa ha permesso finora l’export di 9 milioni di tonnellate di cereali e ha consentito di abbassarne i prezzi mondiali. Sarebbe scaduto formalmente a metà novembre. Ieri il vice ministro degli Esteri russo Andrey Rudenko ha dichiarato: «Avremo contatti sia con le Nazioni Unite che con la Turchia, in quanto partecipanti all’accordo. Questi contatti avranno luogo nel prossimo futuro». Non c’è una data quindi: sine die. Ma il grano è di proprietà ucraina e gestirlo mettendo a rischio fame milioni di poveri che nulla hanno a che fare con la Nato e gli Usa, è operazione disumana. Il diritto internazionale prevede che un Paese occupante non possa modificare lo status di terre occupate. Ma il Cremlino si è annesso il 20% dell’Ucraina con i referendum farsa in quattro regioni. È lo stesso diritto che vieterebbe a Israele di impiantare colonie nei territori palestinesi occupati.

Il nuovo blocco dell’export avrà ricadute anche in Italia, dove nell’ultimo anno prima della guerra, secondo una stima della Coldiretti, arrivavano dall’Ucraina quasi 1,2 miliardi di chili di mais per l’alimentazione animale, di grano tenero e olio di girasole.

Intanto Papa Francesco, con lodevole tenacia, è tornato a lanciare un appello per la fine del conflitto: «Non dimentichiamo - ha chiesto ieri all’Angelus - per favore, nella nostra preghiera, nel nostro dolore del cuore, la martoriata Ucraina. Preghiamo per la pace, non ci stanchiamo di farlo». C’è chi specula sulle parole del pontefice, manipolandole a proprio uso, come se Bergoglio avesse una posizione neutralista, mentre ha una visione della situazione lucida e complessiva: l’Ucraina è martoriata e a inizio ottobre si è appellato al presidente russo Vladimir Putin affinché «fermi questa spirale di violenza e morte», e al presidente ucraino Volodymyr Zelensky affinché «sia aperto a serie proposte di pace». Serie.

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