
(Foto di Ansa)
MONDO. La missione della Global Sumud Flotilla è finita com’era previsto che finisse: l’abbordaggio della Marina di Israele (per la cronaca: un atto di pirateria, visto che si è svolto in acque internazionali, a 70 miglia marine da quelle di Gaza), il sequestro delle barche e, nei prossimi giorni, l’espulsione degli attivisti.
Questo è anche un auspicio, perché tutto si svolge mentre stiamo scrivendo e la speranza è che non vi siano svolte ancor più drammatiche. È già inevitabile, però, tentare un bilancio di questa iniziativa, che ha avuto dei precedenti (la Freedom Flotilla nel 2010, con i dieci morti sulla Mavi Marmara, la Madleen nel giugno scorso con Greta Thunberg a bordo) e sta già avendo conseguenze in Italia, con i cortei che marciano verso i palazzi della politica e gli scioperi subito proclamati.
E il bilancio non può prescindere da una considerazione: la scissione, ai limiti della contraddizione, tra lo scopo dichiarato e quello effettivo, tra l’intenzione e la realizzazione. La Global Sumud Flotilla era partita per portare tonnellate di aiuti umanitari a Gaza. Ma, come si diceva, fin dal principio si sapeva che questo non sarebbe stato possibile. Perché Israele non avrebbe ceduto ma anche perché gli attivisti delle barche hanno rifiutato la soluzione che da più parti, non ultime quella del presidente Mattarella e quella del Cardinale Zuppi, presidente della Conferenza episcopale, era stata suggerita: consegnare gli aiuti umanitari a un canale sicuro come quello del Cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme dei Latini, che avrebbe di certo trovato la via per farli arrivare ai gazawi.
Così nella realtà la missione della Flotilla è stata soprattutto un’operazione di sensibilizzazione dell’opinione pubblica attraverso un atto di disobbedienza civile e una «provocazione» verso Israele, ancora una volta sfidato a bloccare le barche violando la legge del mare e il diritto internazionale. Come si diceva, la reazione in Italia è stata immediata. Il che, però, rivela anche la più sottile e insidiosa falla dell’intera operazione: di giorno in giorno, almeno alle nostre latitudini, si è parlato sempre meno di Gaza e sempre più della Flotilla. Di chi abbandonava, di chi continuava, come la pensava Thunberg, che cosa diceva la portavoce, che cosa avrebbero fatto le navi della Marina militare italiana mandate dal ministero della Difesa a garantire la sicurezza in mare.
Mentre di tutto questo si dibatteva all’infinito e a reti unificate, a Gaza si continuava a morire. Anche ieri, quando i mezzi corazzati di Israele hanno chiuso il corridoio di Netzarim, tagliando in due la Striscia e accerchiando Gaza City, con il ministro della Difesa Israel Katz impegnato a dire che chiunque fosse rimasto in città sarebbe stato considerato un terrorista, almeno 66 palestinesi perdevano la vita, come sempre in gran parte civili disarmati. Il tutto dopo la presentazione del Piano Trump e nell’attesa della risposta di Hamas, cosa che avrebbe almeno dovuto consigliare un minimo di moderazione.
E la sovraesposizione della Flotilla, nei casi peggiori, è servita anche a questo: a far passare il dramma vero, quello in corso a Gaza ormai da due anni, in secondo piano rispetto a un dramma, l’ansia per la sorte degli attivisti e delle barche, affatto trascurabile ma nemmeno paragonabile. Un’operazione già vista, per esempio con la recente giornata per Gaza, con centinaia di migliaia di persone scese in piazza in modo pacifico e i media impegnati quasi solo a parlare delle poche decine di provocatori che hanno dato l’assalto alla stazione Centrale di Milano.
Di questi meccanismi gli attivisti della Flotilla non potevano non essere avvertiti ma alla fine non sono riusciti a gestirli. Resta, il loro, un gesto generoso e un impegno gratuito che in molti altri Paesi è stato vissuto con maggiore entusiasmo. Nei Paesi arabi, per esempio, che premono su Hamas perché accetti il Piano Trump ma che hanno seguito con attenzione il viaggio delle barche. O in Spagna, dove il Governo Sanchez, da solo in Europa, ha preso provvedimenti concreti (per esempio la chiusura dei porti ai carichi di armi che viaggiano verso Israele) per segnalare il dissenso verso le politiche di Netanyahu.
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