
(Foto di Bedolis)
L’OMICIDIO. I compagni: «Non c’entra il tifo. Provocati, volevamo chiarire. Stavamo andando via, è spuntato De Simone col coltello».
«Stavamo parlando con una parente di quel ragazzo (la mamma di Jacopo De Simone, il 18enne arrestato per l’omicidio di Riccardo Claris, scesa in strada per placare gli animi, ndr), il gruppetto che ci aveva provocato al bar non c’era più e la situazione sembrava essersi calmata. Noi stavamo per andarcene, quando qualcuno ha gridato “Ha una lama, ha una lama!”. In quel momento mi sono voltato e ho visto quel tipo (De Simone, ndr), sbucato da chissà dove, con un coltello in mano. Riccardo era già a terra, colpito alla schiena. Era accanto a me, questione di centimetri e di secondi e al suo posto potevo esserci io. Ho tentato di tamponargli la ferita alla schiena, ho provato disperatamente a rianimarlo prima che arrivassero i soccorsi. Purtroppo non c’è stato nulla da fare».
È il racconto di come un 21enne dell’hinterland ha visto morire il consulente di 26 anni ucciso con un fendente in via Ghirardelli all’una della notte tra sabato 3 e domenica 4 aprile. Il giovane ha ricostruito le drammatiche sequenze ad alcuni amici nell’immediatezza dei fatti. Sono loro - Paolo di 21 anni e Massimo di 22 (nomi di fantasia perché ci hanno chiesto l’anonimato), anch’essi residenti in due paesi dell’hinterland - a riferirlo al nostro giornale, dal momento che il testimone oculare, in vista dell’audizione come persona informata sui fatti in programma nella giornata di oggi - 6 maggio - davanti ai carabinieri, per correttezza ha voluto evitare dichiarazioni ufficiali. «Intanto vogliamo specificare che il tifo non c’entra nulla», affermano in coro i due.
La ricostruzione accusatoria vuole che gli screzi tra i gruppi all’interno del Reef Cafè di Borgo Santa Caterina, siano cominciati per questioni da stadio: interista quello di De Simone, atalantino quello della vittima. Lo stesso presunto omicida avrebbe confidato di aver intonato un coro provocatorio ma a bassa voce (forse «Odio Bergamo»). «Noi due siamo interisti, secondo lei ci saremmo dovuti scontrare con gente della nostra stessa fede calcistica?», chiedono retoricamente Paolo e Massimo, che risultano fra la ventina di persone identificate, ma che per ora non sono stati convocati dai carabinieri a testimoniare. «E poi nel nostro gruppo c’erano anche juventini, non solo atalantini». Qualcuno di voi indossava capi riconducibili all’Atalanta o alla Curva Nord? «Non ricordiamo di preciso, ma presumiamo di sì; qualcuno con un giubbetto o una sciarpa nerazzurra c’è sempre», rispondono i due.
«Siamo arrivati al Reef dopo le 23, al termine di Inter-Verona, che abbiamo visto in tv a casa nostra», ricordano Paolo e Massimo. Entrambi ammettono che non conoscevano Riccardo Claris, né che avevano mai visto prima di quella sera De Simone e i suoi amici. «Eravamo in una decina comprese delle ragazze, volevamo trascorrere una serata in tranquillità. Claris, quando siamo entrati al bar, era già lì con i nostri amici ed era accompagnato dalla fidanzata». All’improvviso nel locale compare il gruppo di De Simone. «Alcuni di loro erano vestiti come maranza – rimarca Paolo –. Erano in una decina e tra loro c’erano due ragazze. Sono entrati con fare provocatorio, hanno spostato bruscamente con un braccio uno di noi. “Dobbiamo passare”, dicevano. Facevano gli sbruffoni, andavano avanti e indietro passando fra di noi. E hanno cominciato a provocare. “Cosa guardi? Cosa vuoi?”. Poi sorrisini e offese pesanti, anche alle nostre madri. Situazioni che succedono anche in discoteca, quando incroci qualche attaccabrighe. Cose futili, io non ho sentito cori da stadio. Non eravamo impauriti, in fondo erano ragazzini più piccoli di noi».
Massimo: «A un certo punto uno di loro ha tentato di uscire con una bottiglia di liquore in strada. Si vedeva che non era animato dalle migliori intenzioni. Il titolare del bar gliel’ha strappata di mano perché è proibito portare fuori bicchieri o bottiglie di vetro. Il proprietario li ha poi invitati ad andarsene. Loro si sono incamminati verso la viuzza adiacente alla chiesa. Continuavano a insultarci e a provocarci. E allora quattro o cinque dei nostri amici li hanno seguiti. Volevano chiarire la questione, capire il perché di tanta aggressività. Nessuno aveva mazze o spranghe, come è stato scritto. Io e Paolo ci siamo fermati al bar ancora per qualche minuto, poi anche noi ci siamo incamminati per vedere che cosa succedeva. Da lontano non abbiamo mai sentito slogan, né urla. I nostri amici e gli altri non sono mai arrivati a contatto».
E in effetti, al momento la rissa non è contestata: l’unico indagato nel fascicolo del pm Guido Schininà è Jacopo De Simone, che deve rispondere di omicidio volontario aggravato dai futili motivi.
All’appello manca il fratello gemello di Jacopo e la fidanzata. Che, si scoprirà, si sono attardati perché lei porta i tacchi e hanno così scelto di nascondersi lungo il tragitto. Jacopo e la mamma sono però preoccupati di quell’assenza. La donna decide di scendere in strada per placare gli animi del gruppo di Claris
Una volta fuori dal Reef, De Simone e altri quattro amici accelerano il passo. Forse sono spaventati. «Però ci hanno detto i nostri amici che continuavano a insultare e a provocare, pur a bassa voce», è il ricordo di Massimo e Paolo. Il gruppetto di De Simone si dirige verso l’appartamento del 18enne in via Ghirardelli. Qui, secondo le prime ricostruzioni, il presunto omicida e gli altri quattro si sarebbero rifugiati per timore dei rivali. All’appello manca il fratello gemello di Jacopo e la fidanzata. Che, si scoprirà, si sono attardati perché lei porta i tacchi e hanno così scelto di nascondersi lungo il tragitto. Jacopo e la mamma sono però preoccupati di quell’assenza. La donna decide di scendere in strada per placare gli animi del gruppo di Claris.
«Riccardo e gli altri se la sono trovata di fronte non appena hanno svoltato in via Ghirardelli – continuano Massimo e Paolo –. Si sono fermati a parlare con lei. Era sola. Quando hanno capito che non c’era più motivo per stare lì e che era tempo di andarsene, è spuntato De Simone con il coltello. Questo è quanto ci ha raccontato il nostro amico».
I due sulla scena dell’omicidio arrivano dopo. «C’era già l’ambulanza e stavano accorrendo le pattuglie dei carabinieri – ricorda Massimo –. Claris era in terra. Non parlava. Su di lui c’erano i medici che provavano a rianimarlo. Sono andati avanti con i tentativi per 40 minuti. Noi pregavamo, sperando che ce la facesse. Eravamo paralizzati. La sua fidanzata piangeva e urlava disperata. Le sue grida erano lancinanti, le sento ancora a adesso. Ho visto un ragazzo caricato sull’auto dei carabinieri. I suoi amici erano scappati. Noi alla fine sul posto eravamo una dozzina, ma tenga conto che in sei o sette siamo arrivati dopo che la cosa era successa».
Massimo rammenta anche l’attimo in cui il personale sanitario ha coperto con un lenzuolo il corpo di Riccardo Claris. «È stato un momento atroce. Noi cercavamo di non far capire alla sua fidanzata che era morto. Le dicevamo: “Dai, che lo stanno riprendendo, dai che ce la fa!”, ma sapevamo che non c’era più nulla da fare. Anche la signora (la madre di De Simone, ndr) era disperata: “La mia vita è finita! La mia vita è finita!”, urlava».
«Non ho dormito quella notte, ho rivissuto tutti quei momenti – conclude Massimo –. Oggi sono ancora sconvolto. Ma ho capito che basta una stupidata per perdere la vita».
© RIPRODUZIONE RISERVATA