Afghanistan al collasso
Il cinismo occidentale

Se la situazione non fosse gravemente drammatica, la si potrebbe definire tragicomica. I Talebani sono attestati a 150 km dalla capitale Kabul, ieri hanno conquistato il decimo capoluogo provinciale e ormai controllano quasi il 70% del territorio afghano. È stata un’avanzata imperiosa: nell’arco di tre settimane dal ritiro delle forze della Nato, le milizie jihadiste hanno sbaragliato la fragile resistenza dell’esercito governativo, che si è sciolto come neve al sole, e si apprestano a riprendere il potere sullo Stato asiatico, perso nell’ottobre 2001 in seguito all’intervento anglo-americano dopo gli attacchi terroristici agli Usa nel settembre precedente, ideati dal leader di Al-Qaeda Osama Bin Laden, protetto dagli stessi Talebani. Vent’anni di presenza di truppe Nato, impegnate nel tentativo di costruire un Paese più libero e sicuro, sono stati spazzati via in pochi giorni. I 3.541 militari dell’Alleanza atlantica uccisi in questo tempo (tra i quali 2.400 americani e 53 italiani), 3 mila miliardi di dollari spesi (8,8 da Roma) e 40 mila civili che hanno perso la vita: sacrifici enormi neutralizzati da una ritirata precipitosa.

. Non si è trattato infatti del sigillo a un’operazione compiuta ma della fuga da un fallimento, voluta dall’ex presidente statunitense Donald Trump dopo l’accordo siglato a Doha (Qatar) nel febbraio 2020 proprio con i Talebani e confermata dal successore Joe Biden. Del resto il 70% degli americani era a favore del ritiro e oggi la politica purtroppo si fa anche con i sondaggi.

Ieri il capo della Casa Bianca ha detto di «non essere affatto pentito della decisione presa» e che «è ora che i leader afghani si mettano assieme e comincino a combattere per conto loro, per il loro Paese. È questione di volerlo». Ha quindi ricordato ancora una volta come Washington nelle ultime due decadi abbia speso mille miliardi di dollari solo per addestrare e armare le forze di sicurezza di Kabul. Ma evidentemente non è bastato: è un argine di argilla quello che i militari governativi hanno opposto alla nota furia delle milizie jihadiste, pronte a riprendersi la capitale e a dichiarare un Emirato, riportando le lancette della storia indietro di vent’anni e reintroducendo legislazioni arcaiche soprattutto verso le donne.

Ma ora si apre anche un capitolo umanitario drammatico. Solo in questi giorni 30 mila persone (molti i bambini) sono state costrette a lasciare le proprie case e a cercare protezione come sfollati interni nella capitale. L’Iran ospita già 3 milioni di afghani e ha lasciato aperte le frontiere. Il Pakistan ne accoglie 3,5 milioni e ha chiuso i confini, richiedendo un passaporto e un visto per entrare. L’Europa intanto teme un’ondata di profughi come quella provocata dalla crisi siriana. Sei Stati (Germania, Olanda, Austria, Danimarca, Belgio e Grecia) con un cinismo e un tempismo fuori luogo, hanno chiesto alla Commissione Ue di non fermare i rimpatri forzosi di chi ha chiesto e non ha ottenuto l’asilo politico. «La situazione in Afghanistan è delicata», argomentano, «ma è importante rimpatriare chi non ha reali esigenze di protezione».

Il momento però non poteva essere meno propizio, con i Talebani vicini a Kabul e il governo prossimo al crollo. Germania e Olanda, alla luce degli avvenimenti delle ultime ore, hanno deciso di sospendere la richiesta, comprendendo in ritardo che in Afghanistan nessun luogo è più al sicuro. Si tratta di un caso scuola di come l’Occidente possa essere provocatore di flussi migratori: è accaduto in Siria, dove l’Europa è stata spettatrice di una guerra per procura, in Iraq e in Libia, dove sono stati abbattuti regimi senza avere alternative solide, e ora in Afghanistan, con una fuga a lavoro non ultimato. Aiutiamoli a casa loro, ma soprattutto evitiamo errori affinché i migranti non debbano scappare dalle loro terre.

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