Cura Draghi, i partiti
in pressing e sparigliati

Per ora paiono punture di spillo, niente che assomigli a una guerriglia pur a bassa intensità. Nessuno in realtà intende mettersi di traverso a Draghi: quattro mesi di governo gestiti secondo la formula del «rischio calcolato», con un premier che ha beneficiato anche del recente vertice con Biden. La missione continua e la proroga dello stato d’emergenza, al di là della questione sanitaria, è anche un voler ricordare ai partiti della maggioranza che le ragioni fondative del governo (vaccini e riforme) restano in campo, semmai vanno rafforzate: il fatto in sé non è a margine, perché riafferma il vincolo di mandato ricevuto dal presidente Mattarella. Fra un mese e mezzo, però, si entra nel semestre bianco e in autunno si vota nelle grandi città: due passaggi in cui la pressione dei partiti potrebbe aumentare, scaricando sul governo le controversie interne. Al premier basteranno il pilota automatico e la pax draghiana? E fin dove si può spingere la linea rossa degli alleati-avversari, cioè la soglia ultima dei loro contrasti oltre la quale scatta l’allarme?

Per ora abbiamo visto fibrillazioni naturali in vista di un riposizionamento che si va componendo. Contare di più, far sapere di esserci ancora è un po’ il motto che rappresenta tutti i capi partito, quasi a dire che Draghi non è, e non può essere, tutto, segnalando così l’impaccio di chi si sente espropriato di un ruolo. L’azione di disturbo, fin qui controllabile, è in qualche modo scontata e ripetuta. La Lega di Salvini pende sul lato delle aperture totali e del ritorno quanto prima alla normalità, il Pd di Letta punta sul versante sociale e del lavoro, i grillini sono tuttora in fase di elaborazione del lutto. Quella dei Cinquestelle, a rischio scissione, è la variabile meno trattabile: il processo di fuoriuscita dal radicalismo procede a strappi e a giorni alterni, non è chiara la presa di Conte sul movimento, Grillo è sempre incombente, l’abbandono dell’insulto giustizialista da parte di Di Maio andrà verificato. Ne deriva che la riforma della giustizia, pur in buone mani, potrebbe non essere una passeggiata. Il problema di Salvini e Berlusconi si chiama Giorgia Meloni, che continua a crescere nei sondaggi: esiti virtuali, ma pur sempre l’indicazione tangibile di un’area distinta da Lega e Forza Italia e che non si riconosce nell’attuale maggioranza ibrida. Una crescita da non sottovalutare, errore che sta compiendo anche il Pd. L’idea di addomesticare l’imprevisto (Meloni) con una federazione (Salvini) o un partito unico (Berlusconi) resta allo stato semplice annuncio.

Il centrosinistra è alle prese con il Letta nuovo conio, che ha sterzato a sinistra e qui si coglie l’imbarazzo di un Pd multiuso: da un lato il leader dem è l’esponente più vicino a Draghi per cultura politica, fino a identificare l’agenda del partito con quella del premier, dall’altro sceglie il movimento identitario per non lasciare ai grillini l’intera rappresentanza del mondo del lavoro, della lotta all’evasione e alla corruzione. La condivisione con il modello Ciampi degli anni ’90 era convinta, con Draghi lo è meno.

Per il momento, più in generale, sono chiare tre cose. L’uscita di scena di Trump ha indebolito le forze anti sistema, nei Paesi critici, in modo soltanto relativo: vedi la Meloni, che fa storia a sé, ma anche la Le Pen in Francia. Il voto di settembre in Germania, nel cuore dell’Europa, si rifletterà sulla periferia: sul centrodestra italiano e in particolare sulla collocazione della Lega all’europarlamento. Infine, ma non ultimo per importanza, l’effetto combinato fra Covid e cura Draghi costringe il sistema dei partiti a riformularsi.

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