Fermare la guerra, serve realismo

Lo scadere dei cento giorni della guerra russa in Ucraina dovrebbe imporre a tutti un bagno di realismo, e a qualcuno un senso di vergogna. Per più di tre mesi ci siamo raccontati che l’esercito russo era guidato da un gruppo di sanguinari incompetenti, che quello ucraino passava di vittoria in vittoria, che le sanzioni (l’Europa ha appena licenziato il sesto «pacchetto») stavano annientando la Russia, che Vladimir Putin era isolato al Cremlino, che il fiume di armi occidentali fornite all’Ucraina avrebbe annullato le velleità dei russi.

Oggi ci ritroviamo con il 20% del territorio ucraino occupato dalle forze russe (100 giorni fa, tra Crimea e Donbass, la percentuale era del 7%), l’esercito ucraino in chiara difficoltà (lo stesso presidente Zelensky ha parlato di 60-100 soldati morti al giorno e altri 500 feriti), armi sempre più potenti spedite in Ucraina senza vedere effetti decisivi, e la classe politica russa che non fa un mezzo passo indietro. Di più. È sempre più chiaro che cercare di sconfiggere la Russia sul campo di battaglia porta con sé una tragica conseguenza, ovvero la probabile distruzione dell’Ucraina stessa, come nazione e come Stato unitario. Il risultato politico sarebbe allettante per alcuni (Usa, Regno Unito, Polonia…), ma noi siamo disposti a pagare un simile prezzo, e soprattutto a farlo pagare agli ucraini?

Può darsi che molte cose cambino ancora. Il nostro premier Draghi, per esempio, è convinto che le sanzioni cominceranno a fare il massimo effetto in estate. E lui di economia capisce. Per il momento, però, nulla riesce a fermare la Russia, né a contenere le conseguenze (si pensi anche solo alla crisi alimentare globale) dello sconvolgimento epocale che la sua guerra sta provocando. E mentre la gente muore non si può vivere solo di stime e previsioni. Proprio da questo punto di vista ha fatto impressione il parziale rientro sulla scena di Angela Merkel, per sedici anni (2005-2021) cancelliere della Germania federale. Un piccolo discorso in un’occasione in fondo secondaria (il saluto a un leader sindacale che lasciava la carica), atteso però con interesse data la caratura del personaggio. La Merkel ha parlato di «barbara aggressione russa», ha espresso solidarietà all’Ucraina e «sostegno al suo diritto all’autodifesa», ha detto di appoggiare quanto fatto finora da Onu, Nato, Ue, Usa e G7. Non ha mai citato Vladimir Putin, che incontrò a Mosca poco prima di lasciare la politica e che, da vecchio avversario, le dedicò un discorso quasi caloroso. Poi ha salutato e se n’è andata.

È buffo che sia proprio la Merkel, che dedicò moltissimi sforzi a ricomporre i rapporti con gli Usa dopo la rottura del 2003 quando Germania e Francia rifiutarono di appoggiarli sull’Iraq, a essere ora accusata quasi di complicità nelle azioni del Cremlino, quantomeno di non aver compreso e quindi ostacolato le tendenze imperialiste «putiniane». Il pensiero corre subito alla questione del gas, al gasdotto Nord Stream-1 inaugurato nel 2011 e ancor più al Nord Stream-2, bloccato quest’anno dalle tensioni politiche proprio quando era pronto a entrare in funzione.

È il solito vecchio equivoco, su cui bisognerebbe smettere di fare retorica inutile. Gli europei comprano gas russo dalla fine degli anni ’50, hanno continuato a farlo per tutta la Guerra fredda e per vent’anni di Putin per una e una sola ragione: perché conveniva. Nessun’altra materia prima è stata commerciata in modo tanto stabile e sicuro per sessant’anni. La Merkel aveva lavorato per garantire al proprio Paese una posizione di privilegio nel settore. Ma nello stesso tempo si sforzava di tenere l’Europa in equilibrio tra le pressioni Usa e le pulsioni russe. Siamo più felici ora che tale equilibrio è sprofondato?

Una responsabilità che la Merkel dovrebbe prendersi, invece, riguarda non la Russia ma l’Ucraina. Lei era cancelliera nel 2015, quando Russia e Ucraina firmarono gli accordi di Minsk che dovevano regolare la contesa del Donbass e che avevano come garanti Francia e Germania. L’attuale presidente tedesco Franz-Walter Steinmeyer era, in quell’occasione, il «suo» ministro degli Esteri. Tutti ora si affannano a dire che l’Ucraina è Europa ma per otto anni, dal 2014 al 2022, della crisi nel Donbass, cioè di una crisi drammatica in Europa, l’Europa stessa si è occupata solo in modo formale, senza passione e senza sostanza. E di quell’Europa la Merkel era di gran lunga l’esponente più potente, autorevole e stimato.

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