Guerre, i volti oltre i numeri

ISRAELE. Il più grave attacco terroristico subito da Israele nella sua storia, sabato 7 ottobre scorso, ha riportato al centro dell’attenzione il conflitto nel Vicino Oriente.

Nei media e nei social sono state raccontate le biografie di molte delle 1.200 vittime, sono comparsi collage di foto in particolare dei giovani uccisi da Hamas mentre partecipavano al rave party nel deserto e di alcuni degli israeliani presi in ostaggio. I bombardamenti indiscriminati su Gaza ordinati dal governo Netanyahu per debellare l’organizzazione terroristica hanno provocato la morte di oltre 1.900 persone (500 i bambini) e generato una gravissima crisi umanitaria, con l’ordine di evacuazione dalle proprie case imposto a un milione di civili ma pure a ospedali pieni di feriti. Il dibattito sui social, come ormai è d’abitudine, si è subito polarizzato, non risparmiando la violenza verbale che trova sfogo in Facebook, ma talvolta anche nei talk show televisivi. Una sorta di inaccettabile «guerra» sulla guerra, che divide invece di unire in quella che dovrebbe essere una causa comune, la pace, una condizione che ci riguarda da vicino.

Chi ha il privilegio di vivere al di fuori del conflitto dovrebbe preservare onestà intellettuale ed equilibrio, evitando di cadere negli infruttuosi tranelli delle ideologie più settarie. La realtà va guardata in faccia: nel suo statuto Hamas professa la distruzione dello Stato di Israele ed è un intento inaccettabile. Ma la causa palestinese non può essere fatta coincidere con i furori di odio dell’organizzazione islamista. Tre settimane fa in diverse parti della Striscia di Gaza si sono tenute proteste contro Hamas per il caro vita e per la scarsa erogazione di energia elettrica che provocava blackout. Il movimento al potere ha reagito con mano pesante: i dimostranti sono stati picchiati e arrestati dalle forze di sicurezza, che hanno anche sparato per disperdere i cortei. Un recente sondaggio condotto nella Striscia ha attestato, prima del nuovo, agghiacciante capitolo della guerra, che in caso di elezioni l’organizzazione islamista avrebbe perso. Oggi il popolo palestinese si trova stretto fra un movimento che non lo rappresenta e le sue azioni criminali da una parte e i bombardamenti dall’altra, senza nemmeno un robusto piano umanitario di assistenza, in un’area lasciata senza più acqua, né cibo, né elettricità.

Si resta sgomenti di fronte a questa nuova pagina della guerra nel Vicino Oriente, con addosso il senso di impotenza che coglie quando ci si trova al cospetto di vicende tragiche molto più grandi di noi. Se Hamas verrà finalmente e definitivamente sconfitta, resterà però intatta la domanda di come chiudere il conflitto israelo-palestinese, in un contesto nel quale potenze regionali come l’Iran e gli Hezbollah libanesi soffiano sul fuoco. La soluzione dei due Stati sembra sempre più lontana. La colonizzazione crescente della Cisgiordania toglie continuità territoriale a quella regione e oggi è difficile immaginare uno Stato palestinese sui rimasugli dell’area e con la Striscia di Gaza distrutta. I palestinesi inoltre sono privi di una rappresentanza istituzionale credibile: non è certo Hamas, mentre l’Anp è indebolita e in parte corrotta. Il governo Netanyahu, il più a destra nella storia israeliana, non ha in agenda una via diplomatica, anzi. In generale, la questione è avvolta da un grande clima di rassegnazione. Diceva il grande scrittore israeliano Amos Oz: «Voi in Occidente siete abituati a pensare che qui la situazione sia come in un film western in bianco e nero in cui i buoni lottano con i cattivi, a seconda delle simpatie. Qui la situazione è più complessa perché il male si allea con il male e i buoni non si parlano». Chi non è parte del conflitto dovrebbe evitare l’atteggiamento delle tifoserie, lo schierarsi e il chiamare a militare a prescindere da ciò che accade.

I social però non sono solo la piazza di contese ideologiche e verbalmente violente. Vi si incontrano anche le vittime civili di un altro conflitto: ucraini residenti in Italia o nel Paese invaso dalla Russia pubblicano fotografie e storie di chi ha perso la vita sotto i missili del Cremlino, parenti, amici o conoscenti. Una modalità utilizzata in questi giorni anche dai palestinesi, che toglie la vita di chi non c’è più dall’anonimato del numero complessivo dei morti nei conflitti: ci permette di immedesimarci con quelle persone e con il dolore di chi è rimasto. Almeno questo passo, la vicinanza con ogni vittima, lo possiamo compiere, preludio al contrasto della violenza, dalla più grande (la guerra ) a quella verbale. Per imparare a discutere di conflitti con il senso del tragico.

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