Il segnale forte di un’Europa debole

ESTERI. L’Europa poteva scegliere se inviare un messaggio di determinazione o di stanchezza. Ha deciso per il primo, battendo così un buon colpo: l’apertura dei negoziati di adesione di Ucraina e Moldavia all’Unione europea, più la Georgia con lo status di candidato e una prospettiva aperta per la Bosnia.

Passo storico o più semplicemente il superamento di un ostacolo cruciale, l’Europa più larga, e forse più adulta, è comunque un segnale forte a Putin, agli altri autocrati e all’America che si riconosce in Trump. Un investimento politico in sicurezza e in consolidamento della democrazia. Un primo piede nell’Ue, per l’Ucraina, significa una sorta di assicurazione sul futuro e un valore aggiunto sul versante diplomatico ai fini di ciò che più conta: una pace giusta. Lo è specie ora in cui molto sembra congiurare a sfavore di Kiev. Sono tempi eccezionali e il percorso verso l’ingresso in Europa è passato dal ricatto di Orban che ha incassato 10 miliardi di euro senza aver ripristinato lo Stato di diritto secondo i parametri richiesti da Bruxelles.

In questo modo, con le tasche piene, è uscito al momento della votazione, consentendo ai 26 di aggirare il vincolo dell’unanimità. Ancora insoddisfatto, e contestato da Macron, l’intransigente di Budapest non intende dare il via libera al pacchetto di aiuti all’Ucraina (50 miliardi di euro) se l’Ungheria non riceve tutti i fondi bloccati in seguito alle violazioni dello Stato di diritto. La revisione del bilancio Ue slitta quindi all’anno prossimo. In questo chiaroscuro s’inserisce la maratona sulla riforma del Patto di stabilità, le regole fiscali, che dovrebbe terminare settimana prossima. Sembrava a destinazione la mediazione franco-tedesca, ma ieri è arrivata la doccia fredda prima di Giorgetti poi di Giorgia Meloni: le possibilità di chiudere sono molto scarse, dopo che nei giorni scorsi la stessa premier aveva minacciato il veto dell’Italia.

L’agenda europea è una corsa ostacoli. Siamo già in campagna elettorale in vista delle elezioni del prossimo giugno, qualche mese prima del voto ad alto rischio negli Stati Uniti. Il rilancio sovranista resta in pieno svolgimento fra opinioni pubbliche imprevedibili e volatili, ma la geografia politica è frammentata. In Olanda e in Slovacchia hanno vinto le forze che vogliono ridurre il sostegno a Kiev, mentre il nuovo governo polacco intende rientrare nei ranghi pro Ue. In Spagna Vox è stata battuta. Francia e Germania sono sotto attacco virtuale, stando ai sondaggi, dell’estrema destra. Macron non riesce a incidere in Europa come vorrebbe, il governo tedesco è in seria difficoltà sia per la crisi del modello economico del Paese sia per la recente sentenza della Corte costituzionale che ha costretto a ridimensionare il budget.

Con queste zavorre essere riusciti a portare nel prossimo futuro gli ucraini nel club europeo è qualcosa di non ordinario. Tuttavia il precedente e massiccio allargamento a Est ha impartito alcune lezioni. La convergenza economica è avvenuta, perché il Pil pro capite dell’area centro-orientale è aumentato di 20 punti in 18 anni e l’anno scorso ha raggiunto l’80% di quello Ue (l’Italia è al 96% della media). Non altrettanto è successo nel campo dei valori democratici e della sovranità condivisa, come dimostrato in questi anni dalla retroguardia di Ungheria e Polonia. L’arrivo dell’Ucraina è previsto, se tutto va bene, entro il 2030. Non c’è il pilota automatico e non sarà una passeggiata. La scommessa è allargarsi senza implodere, perché il processo decisionale è paralizzato dalla regola dell’unanimità: basta l’Orban di turno e tutto può fermarsi. Gli interrogativi coinvolgono la stabilità. Il bilancio comunitario è insufficiente e da sempre tema ostico. Nella partita dare-avere avremo vinti e vincitori nella distribuzione dei fondi comunitari. Pensiamo alla politica agricola e qualcosa s’è già visto nel contenzioso dei contadini polacchi contro gli ucraini. I rapporti fra Stati e le priorità potrebbero trasformarsi: quanto pesa l’Europa carolingia e quanto l’Est? Le agende dei partner in sicurezza e politica estera sono diverse.

Sul conflitto Israele-Hamas si sono visti tre filoni europei nel voto all’Assemblea generale dell’Onu. Vecchia e nuova Europa sono distanti sulla percezione della minaccia del Cremlino. Anche il Patto di stabilità riflette congiunture economiche e orientamenti politici. In più evoca quel concetto di austerità che ha aperto l’autostrada ai populisti. Meloni si distanzia da Salvini, senza abbandonare i vecchi amici. In questo doppio registro s’è ritagliata un ruolo di pontiere verso Orban che potrebbe entrare nel sodalizio degli euroconservatori, mentre non appare entusiasta di vedere Draghi, chissà, ai vertici di Bruxelles. Due «no», al Patto di stabilità e all’ex fondo Salva Stati (Mes, il paracadute in caso di crisi bancarie improvvise), l’Italia non se li può permettere.

Se la riforma del Mes alla fine passerà in quanto siamo gli unici a non averla ratificata, l’idea di bloccare le nuove regole fiscali sembra una strategia negoziale (cedo su questo, ma voglio quello) più che una strada praticabile. Con le vecchie norme staremmo peggio degli altri per il macigno del debito pubblico. Conti pubblici e prezzo politico: come far accettare qualche medicina indesiderata al proprio elettorato, senza pagarne il costo in termini di consenso.

Occhiello

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