Jihad in Africa,
perché ci riguarda

Ha destato giustamente scalpore la notizia dell’uccisione in Burkina Faso martedì scorso di un famoso documentarista spagnolo, del suo cameraman e di un militante animalista irlandese. Seguivano le operazioni anti-bracconieri viaggiando su un convoglio armato di guardiacaccia, assaltato da un gruppo jihadista. Ma solo nel 2020 in Africa sono stati uccisi dal terrorismo islamista ben 13.059 abitanti, in 4.958 attacchi: 1.742 in Somalia, 1.223 nella zona del lago Ciad e 1.170 nel Sahel, l’immensa regione arida subsahariana che si estende dalla Mauritania al Sudan, attraverso Mali, Niger e Burkina Faso, per 4 milioni di chilometri quadrati. Qui la violenza ha provocato anche 1,4 milioni di sfollati interni e 3,7 milioni di persone vivono nell’insicurezza alimentare. L’espansione dello jihadismo nel continente avviene attraverso l’adesione di giovani a gruppi affiliati ideologicamente ad Al Qaeda nel Maghreb islamico (sigla nata nel 2007) e allo Stato islamico.

Per le due «case madri» l’Africa non è un ripiego dopo le sconfitte in Iraq e Siria, dove stanno peraltro rinascendo: l’Isis in particolare opera dai deserti dei due Stati devastati dalla guerra e di recente ha messo a segno una media di 110 attacchi al mese.

Nel continente africano i gruppi jihadisti mirano al controllo di territori ricchi di materie prime (come il petrolio in Nigeria e recentemente in Mozambico, o minerarie come in Congo). In Somalia invece gli Shabaab impongono il «pizzo» agli abitanti pure sull’acqua. Un’altra pratica per fare soldi sono i sequestri, spesso messi a segno in Nigeria a danno di studenti. L’Occidente non sembra molto preoccupato di questa ascesa criminale. Ma c’è un dato sul quale riflettere, anche a proposito di gestione dell’immigrazione verso l’Europa: diversi studi confermano che, con gli attuali tassi di crescita demografica, entro il 2050 la popolazione africana sarà la più consistente (2,5 milioni, il doppio di oggi) e la più giovane del mondo (la metà sarà al di sotto dei 25 anni). Il numero di ragazzi in Africa sarà dieci volte più grande rispetto a quello nell’Unione europea. Corruzione dei governi, confini porosi e vuoto di potere favoriscono il movimento dei terroristi, ma alla base del reclutamento c’è la povertà: le cellule sono in grado di offrire «stipendi» fino a 800 dollari, un lusso in Africa. Se non la si sostiene con politiche di cooperazione allo sviluppo e pratiche commerciali eque, il rischio è di regalare giovani alla causa jihadista, che ha sempre l’Occidente nel mirino.

La Francia è nel Sahel con 5 mila soldati, l’Italia con 200 ma con un mandato poco chiaro, mentre gli Stati Uniti schierano 6.400 tra militari e contractor (erano 7.200 nel 2018). Fra il 2006 e il 2016 le forze speciali americane erano aumentate del 1.600%, la metà è stata ora dirottata verso il teatro indo-pacifico.

Cattive notizie arrivano anche dalla Libia, dopo i giorni dell’ottimismo (esagerato). Il governo provvisorio di unità nazionale vacilla già. Il primo ministro Abdelhamid Dbeibah è infatti in serie difficoltà: il Parlamento ha deciso per ora di non votare il bilancio e lunedì scorso a Dbeibah e ai suoi ministri gli uomini del generale Khalifa Haftar hanno impedito di atterrare a Bengasi per un viaggio di riconciliazione nell’Est. Non è un caso: Haftar ha un piano che prevede di sabotare ogni velleità del premier e ha deciso di lanciare la sua candidatura o quella del figlio alle elezioni presidenziali di dicembre. E anche in Libia sono presenti cellule jihadiste, quelle legate allo Stato islamico nelle principali città, altre fedeli ad Al Qaeda nel Sud, dove gestiscono traffici di essere umani, di droga e di armi. Tutte pronte ad approfittare di un eventuale fallimento del processo di riconciliazione. Davanti all’Italia.

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