
L'Editoriale
Martedì 20 Maggio 2025
La guerra ideologica tra parole e azioni
MONDO. Domenica scorsa in Ucraina è stato ricordato l’81° anniversario della deportazione di massa dei tatari musulmani di Crimea, gruppo di origine turca, in particolare verso l’Uzbekistan, per ordine di Iosif Stalin durante la Seconda guerra mondiale.
Dei 193.865 deportati, il 46% morì durante il viaggio o a causa delle pessime, nuove condizioni di «vita». Nel luglio 1944, Mosca completò l’insediamento di decine di migliaia di persone, per lo più russe, nelle case dei tatari allontanati con la forza. Ma la russificazione da parte di Stalin riguardò anche il Donbas, la regione ucraina già allora industrializzata perché ricca di miniere di ferro e di carbone. Vladimir Putin nel suo revisionismo storico ha riabilitato il despota, definendolo recentemente «un manager di Stato molto efficiente», oggetto di «un’eccessiva demonizzazione».
La caduta dell’Urss e la Crimea
Alla caduta dell’Urss, migliaia di tatari tornarono in Crimea non senza difficoltà a reinserirsi nel contesto mutato. Il 27 febbraio 2014 l’esercito russo avviò proprio dalla penisola l’invasione dell’Ucraina attraverso i cosiddetti «omini verdi», soldati privi di mostrine di riconoscimento che poi penetrarono anche nel Donbas. La successiva annessione della Crimea alla Russia non è mai stata riconosciuta dall’Onu. Da allora nella regione, che pur sotto Kiev godeva di un’ampia autonomia, è in atto un altro processo di russificazione forzata che ha costretto alla fuga ancora una volta migliaia di tatari e di ucraini non filo Mosca. Il metodo è quello putiniano: soppressione del diritto alla libertà d’espressione e di raduno pacifico, degli eventi culturali e delle prassi religiose, indottrinamento scolastico, denunciati in un rapporto del 18 marzo 2024 da Amnesty International, che ieri è stata messa al bando in Russia, nell’ambito della repressione delle voci critiche del potere inasprita dall’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina nel 2022.
La Nuova Russia
Non è peregrino ricordare fatti del passato e recenti della Crimea, perché è lo stesso Putin a comprendere la penisola nei «territori storici» della «Novorossija», la Nuova Russia, insieme al Donbas, in ossequio all’ideologia nazionalista moscovita classica e contemporanea per la quale «l’Ucraina è un non Stato, parte della Russia», una finzione senza legittimità statuale. È quell’ideologia a rendere oggi impervia una «pace giusta», cioè nel rispetto del diritto internazionale. «Un cessate il fuoco è possibile, ma prima servono compromessi» ha detto Putin a Donald Trump durante la telefonata di oltre due ore avvenuta ieri.
Al termine, lo zar ha dichiarato alla stampa che Mosca «è pronta a lavorare con la parte ucraina su un memorandum per un possibile futuro accordo di pace» ma che «è necessario eliminare le cause principali della crisi». I dettagli delle cause erano già stati specificati nelle scorse settimane da parte russa, con richieste da Stato invaso, non invasore: smilitarizzazione, neutralità, non ingresso di Kiev nella Nato (per altro fuori dall’agenda da tempo) e condizioni alle garanzie di sicurezza dell’Ucraina.
Non invece l’uscita dall’Alleanza Atlantica degli Stati dell’Europa orientale e centrale. Del resto agli atti non risultano opposizioni ufficiali e manifeste di Putin all’unico allargamento a Est della Nato avvenuto sotto la sua presidenza, nel 2004, e il solo anche su confini russi (attraverso Lituania, Estonia e Lettonia). L’iter iniziò nel 2002, allora Mosca faceva parte della coalizione internazionale post 11 Settembre contro il terrorismo islamista. Nel 2003 Putin aprì i cieli russi e le basi asiatiche ai caccia angloamericani per i bombardamenti dell’Afghanistan. Lo zar aderì alla coalizione anche perché, disse, pure lui aveva un terrorismo islamista da combattere ed ebbe carta bianca nel sopprimere nel sangue (molto sangue) l’indipendentismo ceceno.
La complicata posizione di Putin
Putin sa che nei Paesi Nato dell’Est Europa non ci sono armi atomiche né missili a lungo raggio ma, come da accordi, antibalistici non in grado di colpire la Russia. Per il Cremlino la linea invalicabile è invece l’ingresso nell’Alleanza Atlantica dell’Ucraina, «il non Stato, parte della Russia». Fra le richieste per rimuovere le «cause profonde» del conflitto, il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha inserito l’abrogazione della legge che definisce l’ucraino lingua ufficiale dello Stato invaso: non è un’amenità ma una fissa nazionalista dal XVII secolo.
Le prossime settimane diranno se la disponibilità di Putin espressa a Trump è seria o parte ancora della tattica dilatoria per proseguire l’aggressione. Dall’aereo che lo riportava negli Usa da Roma, ieri il vice presidente americano JD Vance ha dichiarato di avere «l’impressione che il presidente russo non sappia come uscire da questa guerra». Dal 2022 ha annesso l’8% di territorio ucraino in più, dedicando all’impresa imperiale il 30% del bilancio statale ma soprattutto sacrificando la vita di centinaia di migliaia di giovani soldati russi, fallendo l’obiettivo dichiarato di insediare a Kiev un governo di proprio gradimento. Ne valeva la pena? Non sarà la giustizia a ispirare l’eventuale soluzione anche di questo conflitto ma la leva dell’economia che Trump ha offerto a Mosca. Ora Putin è in un dilemma: assecondare la brama nazionalista di altre conquiste territoriali o incassare nuova linfa per perpetrare un potere che dura incontrastabile da 25 anni.
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