( foto ansa)
MONDO. La pace non coincide con la fine della guerra ma del conflitto, con la soluzione delle cause che hanno portato allo scontro armato. È un’evidenza che si ricava anche dalla secolare contesa israelo-palestinese.
Senza un riconoscimento della dignità e dei diritti dell’altro, di torti e ragioni, delle responsabilità, i fuochi che hanno portato alla guerra restano accesi sotto la cenere delle distruzioni. Non è un caso che in aree del mondo che furono dilaniate da ostilità armate, a distanza di molti anni la «pace» sia garantita dalla presenza di contingenti militari internazionali, come in Bosnia e in Kosovo, perché è mancato un lavoro di «ricucitura» fra comunità sociali e politiche ostili. La dottrina della Chiesa sostiene infatti che «non c’è pace senza giustizia», una giustizia nel senso più ampio del termine, non legata necessariamente al destino di territori smembrati violando il diritto internazionale, ma nel riconoscimento del prossimo, del nemico che non è più considerato un gruppo da sottomettere ma da rispettare nelle sue richieste di autodeterminazione.
Donald Trump ha fretta di incassare l’ennesima «pace», secondo la sua definizione, in una logica di marketing politico. A Gaza si continua a morire per i bombardamenti israeliani e per malattie che sarebbero curabili e soldati dell’Idf perdono la vita nelle imboscate di Hamas. Trump ha accreditato un ruolo di polizia proprio all’organizzazione islamista, finché non sarà attiva la Forza di stabilizzazione internazionale. In assenza di altri piani, non resta che sperare in questo passaggio e nell’avvio di un serio sostegno umanitario ai due milioni di gazawi senza più casa e della ricostruzione. Confidando in un cambio di rotta decisivo, nel riconoscimento reciproco e definitivo del diritto all’esistenza dei due popoli in quel lembo di terra insanguinato.
Donald Trump ha fretta di incassare l’ennesima «pace», secondo la sua definizione, in una logica di marketing politico. A Gaza si continua a morire per i bombardamenti israeliani e per malattie che sarebbero curabili e soldati dell’Idf perdono la vita nelle imboscate di Hamas
Il presidente degli Usa ha già annoverato come pace raggiunta anche quella che non c’è in Terra Santa e ora ha fretta di incassare pure la fine del conflitto russo-ucraino entro il 27 novembre, quando negli Stati Uniti si celebrerà la festa nazionale del Ringraziamento. In quell’occasione vuole sventolare un altro accordo raggiunto, imponendo il piano di matrice russa, non quello accettato da Kiev e sostenuto dall’Europa con il congelamento del conflitto sulle attuali linee del fronte: riconoscimento a Mosca di Crimea (già annessa illegalmente dal Cremlino nel 2014 senza reazione militare ucraina), Donbas (la regione più devastata dopo l’invasione su larga scala) e degli oblast di Kherson e Zaporizhzhia , tutte aree dichiarate russe nel settembre 2022 ma che Mosca occupa complessivamente per il 73%. È inoltre previsto il dimezzamento del numero dei soldati di Kiev e vaghe garanzie di sicurezza. Prendere o lasciare, con il ricatto di non ricevere più sostegno militare americano, peraltro pagato dall’Europa da quando l’ex immobiliarista è a capo della Casa Bianca. Le trattative, sopra la testa dello Stato aggredito, sono state affidate non ai politici ma a uomini d’affari: l’americano Steve Witkoff e Kirill Dmitriev, responsabile del Fondo sovrano russo «Rdif». Non è un caso. Le due parti discutono da mesi della ripresa di rapporti economici - il business con i Paesi arabi è stato al centro degli accordi per Gaza - in settori strategici come energia, ricerca spaziale e terre rare. Quelle terre che si trovano anche nelle regioni ucraine annesse, dove Kiev produceva il 25% del Pil.
In un discorso ai suoi connazionali, Volodymir Zelensky ieri ha detto fra l’altro che «potremmo trovarci presto davanti a una scelta durissima: sacrificare la nostra dignità, oppure rischiare di perdere un partner fondamentale», gli Usa che garantiscono ancora supporto con l’intelligence. La soluzione russo-americana sancisce lo smembramento di uno Stato sovrano per un intervento militare esterno: non succedeva dalla Seconda guerra mondiale. Se andasse in porto, bisognerebbe definire il destino di 5 milioni di ucraini che vivono nei nuovi territori di Mosca, dove è in vigore l’obbligo di prendere la cittadinanza russa per non essere sottoposti a privazioni materiali e violenze fisiche, oltre che a deportazioni come ribadito da recenti rapporti della Commissione internazionale indipendente d’inchiesta sull’Ucraina presentati all’Assemblea generale dell’Onu.
Nel piano Trump-Putin viene poi stabilita un’amnistia per tutte le parti coinvolte in seguito ad azioni in guerra. Una vergognosa par condicio delle responsabilità, che anche in questo caso condonerebbe mandati di cattura della Corte penale internazionale dell’Aja, emessi contro Putin per aver ordinato il trasferimento a forza di migliaia di minori ucraini in Russia e per due generali responsabili dei bombardamenti quotidiani su abitazioni e infrastrutture civili nello Stato invaso. Ogni sanatoria dei crimini equivale a una seconda uccisione delle vittime, a un affronto doloroso e inaccettabile per i loro parenti. Non è pace.
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