L’assenza della Russia nel disastro del Nagorno

Ci mancava anche il disastro del Nagorno-Karabakh dopo la tragedia ucraina. Mai prima di oggi la Russia era stata così in difficoltà nello spazio ex sovietico.

Penalizzata dalla strategia scriteriata di Vladimir Putin, Mosca non riesce più a rispondere alle sfide geopolitiche che le vengono lanciate. I salti mortali della propaganda non coprono l’evidenza di un fallimento annunciato, iniziato quando il presidente si è messo a non ascoltare più la sua diplomazia e a fare da solo. Dopo il divorzio nel 2008 dalla ortodossa Georgia - sua fedelissima fin dal 1783 - la Russia sta perdendo ora definitivamente il controllo del Caucaso meridionale. La sua alleata di sempre, l’Armenia (il primo Stato cristiano della storia), è furibonda tanto che intende uscire dall’Organizzazione di sicurezza collettiva dei Paesi dell’ex Urss, un «mini-patto di Varsavia» con alla guida il Cremlino, ed ha già tenuto una mini-esercitazione assieme agli Stati Uniti.

Erevan si trova a fronteggiare l’emergenza profughi del Nagorno-Karabakh: 120mila civili disperati, che stanno abbandonando la loro enclave (estesa come il Molise) dopo 35 anni di guerre, a causa della disfatta subita dieci giorni fa dai turcofoni e musulmani sciti azeri.

La forza di pace russa, che avrebbe dovuto garantire gli accordi del 2020, è stata avvertita da Baku, alleata della Turchia, pochi minuti prima dell’inizio della «operazione anti-terrorismo locale» che ha provocato centinaia di morti tra i separatisti. Questo particolare (cinque minuti o giù di lì) basta a far comprendere tante cose! Blanda è stata pure la reazione del Cremlino alla morte di cinque suoi militari per uno scontro a fuoco causato dagli azeri. Il leader separatista Vardanian, già cittadino russo e vicino a Putin, è stato arrestato dai militari di Baku.

Al momento la situazione umanitaria in Nagorno-Karabakh è drammatica: 50mila civili sono già fuggiti in Armenia attraverso il corridoio di Lacin, una strada tra montagne impervie, dove due automobili transitano a fatica in direzione opposta. Tanti disperati affamati, con solo i vestiti indosso, non sanno dove sbattere la testa.

L’Armenia e alcuni Paesi occidentali, tra cui la Francia, temono un prossimo bagno di sangue in Nagorno-Karabakh e la pulizia etnica. L’Azerbaigian nega tale pericolo. Ma, memori del tragico passato, nessuno si fida. Così è iniziato il triste esodo, simile a quello nostro «giuliano-dalmata» del dopoguerra.

Stanco delle vuote promesse del Cremlino, il premier armeno Pashinian incontrerà direttamente il 5 ottobre a Granada (Spagna) il presidente azero Aliev sotto l’egida dell’Unione europea. Allo stesso tempo ha accolto a braccia aperte funzionari americani dell’UsAid e forse chiederà una rapida procedura di accesso all’Ue.

Sull’altro fronte si festeggia: il vero vincitore della partita, il presidente turco Erdogan, ha fatto passerella in Nakhichevan, la terra di origine della famiglia Aliev.

E la Russia dove è? È imbottigliata in Ucraina. Laggiù le operazioni per lei vanno non bene e la linea «Maginot» – «Surovikin» per Mosca traballa. In un punto, nonostante le alte perdite, le unità di Kiev hanno sfondato due linee di difesa e i russi non avrebbero più riserve. Zelensky e i suoi generali stanno puntando al bersaglio grosso, alla Crimea, nocciolo del contendere. I bombardamenti di Sebastopoli e l’uccisione di ufficiali della Marina confermano che le cose si stanno mettendo male.

Ecco perché all’improvviso il ministro degli Esteri Lavrov ha affermato che Mosca è disponibile a negoziati. Non è quindi la buona volontà a dettare certe scelte.

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