Nei Balcani Putin vuole vendicarsi dell’Europa

Lontano dai riflettori che illuminano la tragica e sconcertante invasione russa dell’Ucraina, Vladimir Putin soffia su una crisi poco nota ma che rischia di deflagrare in nuove fratture se non in un altro conflitto. Una prima, sottile vendetta dello zar contro l’Europa schierata con Kiev si consuma in Bosnia, là dove la guerra che dissolse la Jugoslavia fu più crudele (almeno 100mila morti e 2,5 milioni di profughi, più della metà della popolazione residente).

Milorad Dodik, esponente serbo della presidenza tripartita, minaccia di distruggere le fragili istituzioni del piccolo Stato, somma della Republika Srpska e della Federazione croato-bosgnacca (i bosniaci musulmani). Ha presentato un piano per ritirare l’entità che guida creando amministrazioni indipendenti, in particolare in settori chiave quali il fisco, la magistratura, l’intelligence e l’esercito. Il progetto è stato definito in un rapporto delle Nazioni Unite come una «secessione» e un rischio per gli accordi di pace di Dayton del 1995, che hanno posto fine alla guerra. «Se qualcuno cerca di fermarci, abbiamo amici che ci difenderanno» ha dichiarato spavaldo Dodik dopo aver incontrato a Mosca nel novembre scorso il suo sodale Putin. C’è un disegno diabolico per spartirsi la Bosnia - annettendo la Republika Srpska alla Serbia e la parte croata della Federazione alla Croazia - che verrebbe così ridotta a uno staterello con capitale Sarajevo. I partiti che erano al potere 30 anni fa hanno continuato la guerra attraverso la politica. Nella presidenza tripartita sono presenti l’Sda bosgnacco, i nazionalisti dell’Hdz i cui fili sono tirati dalla Croazia e l’Alleanza dei socialdemocratici indipendenti di Dodik, legata alla Serbia.

La crisi si è aperta nel luglio scorso quando l’allora Alto rappresentante per la Bosnia (figura prevista dall’intesa di Dayton che detiene alcuni speciali poteri esecutivi), Valentin Inzko, decise di emanare una legge per vietare di negare il genocidio di Srebrenica (e di esaltare i criminali di guerra) compiuto nel luglio 1995 dall’esercito serbo-bosniaco e da soldataglie (furono uccisi e nascosti in fosse comuni oltre 8mila musulmani, tra adulti e ragazzi). Il massacro è riconosciuto da gran parte della comunità internazionale, ma nella Republika Srpska molti lo ritengono un atto di violenza come altri durante il conflitto. Le minacce di secessione da parte di Dodik cominciarono allora. Ma dopo il 24 febbraio scorso, giorno d’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, i rapporti fra il Cremlino e il leader dei serbi di Bosnia si sono intensificati: Mosca è disposta a fornire aiuti economici per una nuova Crimea nei Balcani, destabilizzando il fronte Est dell’Europa. L’Ue ha quindi deciso di rafforzare l’operazione militare Eufor nel piccolo Stato con l’invio di altri 500 soldati. Timori per le ricadute della guerra in Ucraina ci sono anche in Kosovo, che si è dichiarato indipendente dalla Serbia il 17 febbraio 2008, status riconosciuto da 98 Paesi membri dell’Onu su 193 ma non da Belgrado e Russia. La regione non è ancora uno Stato sovrano. Il presidente serbo Aleksandar Vucic, già ministro nei governi di Slobodan Milosevic, in due anni ha incontrato Putin 19 volte, anche di recente, chiedendo allo zar di agire per dare al Kosovo un doppio standard, separando la striscia a Nord in maggioranza serba dal resto del territorio, dominio degli albanesi musulmani. Gli stretti, storici rapporti fra Mosca e Belgrado non sono solo culturali e religiosi (la comune appartenenza slava e ortodossa) ma anche economici: la multinazionale russa Gazprom possiede il 56% dell’industria petrolifera serba.

Il Cremlino soffia sul fuoco pure di un’altra crisi balcanica, direttamente legata all’ingresso, non ancora avvenuto, della Macedonia del Nord nell’Unione europea, e cioè le divergenze storiche e identitarie con la Bulgaria, che considera il proprio popolo uno solo con quello macedone, in parte annesso alla Jugoslavia con la forza e rinato in seguito alla disgregazione del 1991 come entità statale, però priva di una propria lingua. Se sono deprecabili le intromissioni americane nella politica europea, lo sono altrettanto quelle russe, in particolare nell’area balcanica piena di ferite non rimarginate. Ma prepariamoci: il conflitto ucraino, comunque finisca, è destinato a cambiare il mondo e il nostro continente. Sarebbe utile che le trasformazioni avvenissero in nome della giustizia e non di vendette o di interessi di parte.

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