Prevenire la guerre
La miccia dei Balcani

Balcani producono più storia di quanta ne possano consumare, disse Winston Churchill. A significare che quell’area dell’Europa genera più eventi di quanti ne riesca a rielaborare. È successo anche con i conflitti degli anni ’90 che hanno dissolto la Jugoslavia, consegnati alla storia senza una rilettura comune dei tragici avvenimenti, un’ammissione di responsabilità e una nuova ripartenza spegnendo definitivamente nazionalismi esasperati e particolarismi. Così in Bosnia, là dove il conflitto fu più crudele (almeno 100 mila morti e 2,5 milioni di profughi, più della metà della popolazione residente) si è riacceso un pericolosissimo focolaio. Milorad Dodik, esponente serbo della presidenza tripartita, usa una retorica guerrafondaia minacciando di distruggere le fragili istituzioni del piccolo Stato, somma della Republika Srpska e della Federazione croato-bosgnacca (i bosniaci di fede musulmana).

Ha presentato un piano per ritirare l’entità che guida creando enti indipendenti in particolare per settori come l’amministrazione fiscale, la magistratura, l’intelligence e perfino l’esercito. L’insieme di queste iniziative è stato descritto in un rapporto delle Nazioni Unite come una «secessione» e un rischio per gli accordi di pace di Dayton del 1995, che hanno posto fine al conflitto limitandosi però a congelare la situazione sul terreno definita dalla pulizia etnica. «Se qualcuno cerca di fermarci, abbiamo amici che ci difenderanno» ha dichiarato spavaldo Dodik dopo aver incontrato a Mosca il suo sodale Vladimir Putin. C’è un disegno diabolico per spartirsi la Bosnia - annettendo la Republika Srpska alla Serbia e la parte croata della Federazione alla Croazia - che verrebbe così ridotta a uno staterello con capitale Sarajevo. I partiti che erano al potere 30 anni fa hanno continuato la guerra attraverso la politica. Nella presidenza tripartita sono presenti l’Sda bosgnacco, i nazionalisti dell’Hdz i cui fili sono tirati dalla Croazia e l’Alleanza dei socialdemocratici indipendenti di Dodik legata alla Serbia. La Bosnia è quindi sottoposta a uno stress istituzionale: non pochi temono un nuovo conflitto. Ma rispetto agli anni ’90 ci sono due differenze. Molte meno armi in circolazione senza il lascito dell’Armata jugoslava di allora e le nuove generazioni non disponibili ad arruolarsi in una guerra nella quale non credono. Stretto fra disoccupazione (il 62% della popolazione tra i 15 e i 24 anni è infatti senza lavoro) e corruzione, chi può emigra.

Seppure la Croazia sia l’ultimo Stato entrato nella Ue, la Serbia è tra i candidati all’adesione e la Bosnia ha presentato domanda formale per entrarvi, finora Bruxelles è stata afona - come le capita troppo spesso in politica estera, tanto più grave nel caso in oggetto trattandosi di possibili fratture nel suo fianco orientale - limitandosi a minacciare di sanzioni la Republika Srpska. Troppo poco. Per prevenire un possibile nuovo conflitto, facendo scorta degli errori commessi negli anni ’90, servirebbe una conferenza tra le parti in gioco per ricucire i rapporti e per aggiornare gli accordi di Dayton giocando la carta dell’ingresso nell’Ue.

La crisi si è aperta nel luglio scorso quando l’allora Alto rappresentante per la Bosnia (figura prevista dall’intesa di Dayton che detiene alcuni speciali poteri esecutivi), Valentin Inzko, decise di emanare una legge per vietare di negare il massacro di Srebrenica (e di esaltare i criminali di guerra) compiuto nel luglio 1995 dall’esercito serbo-bosniaco e da soldataglie (furono uccisi e nascosti in fosse comuni oltre 8mila musulmani, tra adulti e ragazzi).

Il genocidio è riconosciuto da gran parte della comunità internazionale, ma nella Republika Serpska molti lo ritengono un atto di violenza come molti altri durante il conflitto. Le minacce di secessione da parte di Dodik cominciarono allora e recentemente ha ribadito il tentativo di ridurre la portata di ciò che accadde a Srebrenica: «Comunque, ci furono uccisioni tra i serbi che sono state messe da parte». Questo è un punto centrale per ogni conflitto. La pace non è il silenzio delle armi, si fonda invece sul riconoscimento veritiero non solo dei crimini subiti ma anche di quelli commessi, rielaborando la storia e facendo giustizia. Altrimenti il rischio è di lasciare ferite aperte e bruciate dal vittimismo. Fino a quando comparirà un nuovo leader incendiario chiamando alla rivincita. Ma nella tragica dissoluzione della Jugoslavia nessuno ha vinto, tutti hanno perso.

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