Stop sovranisti
Il Pd si rafforza

Il centrodestra ha perso il tocco magico, non è più un’armata invincibile, mentre il Pd è il baricentro del centrosinistra: così, in base alle proiezioni, il voto amministrativo di ieri come all’incirca dicevano le previsioni. Il secondo esito è la caduta dell’affluenza, mai così bassa anche nella Bergamasca, solitamente disciplinata, che lascia sul terreno 10 punti: scivolone di lunga tendenza che fa riflettere, tanto più che la scelta del sindaco è un voto «amico», di prossimità. Il partito del neodeputato Enrico Letta porta a casa al primo colpo 3 delle grandi città (Milano, Bologna, Napoli), restano contendibili Roma e Torino più Trieste. Il leader dem può, per ora, smentire chi lo critica per essersi intestato battaglie che non può vincere. Successo pieno invece del centrodestra, ma soprattutto di Forza Italia, alla Regione Calabria.

Il centrosinistra, come da tradizione, solitamente beneficia del voto territoriale: per il radicamento, la scelta dei candidati, la contiguità dell’associazionismo civico. Rispetto al dato nazionale, nella Bergamasca spicca la vittoria al primo turno del centrodestra a Treviglio con la riconferma di Imeri. Elezioni che da noi hanno premiato la continuità dei primi cittadini uscenti: anche a Cologno, Verdellino e, aspettando il ballottaggio, a Caravaggio.

La legittima soddisfazione del Pd incontra un limite nel mancato automatismo fra elezioni amministrative e generali: non è scontato il trasferimento dei consensi sul piano politico. Per tirare le somme mancano due risultati. Il primo riguarda Roma, dove la battaglia è aperta e dove il liberaldemocratico Calenda (nessun apparentamento al ballottaggio, ha annunciato) ha ottenuto un discreto successo che suona a sfavore della coalizione larga nell’agenda di Letta. Il secondo si riferisce ai voti di lista per vedere la competizione tra Giorgia Meloni e Salvini, ma già sin d’ora si può parlare di una battuta d’arresto dei sovranisti. Il candidato civico della leader di Fratelli d’Italia a Roma è in testa, tuttavia al ballottaggio può succedere di tutto. Il vero sconfitto, allo stato, è Salvini che vive il momento più difficile ed è tutto il centrodestra, o il destra-centro allo sbando, a subire l’assedio autunnale della parabola discendente: una coalizione che parla tre linguaggi (ammesso che la Lega sia una sola) e priva del federatore, per quanto Berlusconi sia l’unico in quella metà campo a potersi ritenere gratificato (il voto in Calabria).

La stessa Meloni non può chiamarsi fuori da un’alleanza confusa, sotto il tiro del fuoco amico, priva di una strategia identificabile. Il capo leghista ha attribuito lo scivolone, in particolare nelle metropoli, al ritardo nella scelta dei candidati: è vero, ma riduttivo. Nella Lega voleranno stracci e felpe? L’analisi del voto richiederebbe un ripensamento autocritico e la fine della ricreazione, perché le urne dicono che i populisti non trainano più, non sono autosufficienti, mentre i populisti di ieri in via di rientro (i grillini) possono organizzare la resistenza solo in un quadro di alleanze all’interno del sistema, come in parte è avvenuto. L’impressione è che il movimentismo di rottura abbia perso qualche giro nel succedersi degli eventi insieme al contatto con la dura realtà, arrestandosi sui falsi allori delle parole d’ordine pre Covid, là dove la pandemia ha mutato il quadro, stravolgendo le priorità e modificando il senso comune.

Non è un caso che il governo Draghi stia fornendo una sorta di riparo a quei partiti (Pd e Forza Italia) che hanno assunto la stabilità come linea guida, evitando avventure al buio. L’esecutivo potrebbe uscire rafforzato e l’ipotesi di un voto anticipato potrebbe allontanarsi. Molto dipenderà dallo stato febbrile della Lega salviniana, dalla riuscita o meno di un punto d’equilibrio fra le due anime del partito e dall’evoluzione dei rapporti di forza nel centrodestra. In particolare dall’esito del confronto fra Meloni e Salvini. Il flop dell’affluenza ieri è passato in second’ordine, comunque è un tema da riprendere. Nelle grandi città si è scesi sotto il 50% degli aventi diritto, quindi un elettore su due ha disertato. A Bologna per la prima volta dal dopoguerra il sindaco viene eletto con poco più del 50% dei votanti. Crisi della rappresentanza malata, si ritiene, rifiuto da parte di chi non trova nell’urna una risposta politica: una sfida in più anche per i vincitori.

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