Al G20 di Roma
il futuro
del mondo
multipolare

Primi nodi al pettine per il mondo multipolare post 15 agosto, dopo che il ritiro occidentale dall’Afghanistan ha rimescolato le carte nell’agenda internazionale. Il G20 di Roma di fine settimana per le questioni economico-geopolitiche e il COP-26 di Glasgow del 6-7 novembre per le problematiche energetico-climatiche sono in teoria appuntamenti potenzialmente in grado di essere degli spartiacque per gli eventi futuri. Purtroppo, però, le assenze annunciate sia in Italia sia in Scozia dei presidenti russo Putin e cinese Xi Jinping, i due maggiori sfidanti all’ordine occidentale, hanno ridimensionato le possibilità di successo. In passato, il parlarsi a quattr’occhi fra leader ha aiutato il mondo a superare incomprensioni o momenti difficili… come il presente.

Dai tempi più cupi della Guerra Fredda non si registravano così tante esercitazioni militari, lanci di missili, dichiarazioni bellicose di capi di Stato. Se si sfogliano le raccolte dei quotidiani, antecedenti allo scoppio della Seconda guerra mondiale, si ritrovano tensioni di ugual rilevanza.

Psicologicamente il ritiro dall’Afghanistan, avvenuto in quel modo sotto agli occhi dei media, ha lasciato pericolosamente intendere che gli occidentali sono battibili e che, se messi alle strette, si girano dall’altra parte, senza combattere, come successo in Ucraina nel 2014 o nel mare Cinese meridionale per anni.

Dal 15 agosto l’escalation di provocazioni è così proseguita senza sosta, mentre, al contrario, gli Stati Uniti sono passati ai fatti. Washington ha definito il proprio riposizionamento, costituendo con australiani e britannici una specie di «Nato dell’Asia-Pacifico» e con gli alleati dell’area, in pratica, un accordo commerciale di contenimento di Pechino.

Emissari di Joe Biden stanno trattando con vari Paesi dell’Asia centrale per aprire una base regionale che prenda il posto di quella di Bagram in Afghanistan. Il ministro Usa della Difesa è, invece, stato a Kiev, dove ha evidenziato che gli Usa sono per l’adesione dell’Ucraina all’Alleanza atlantica. Xi Jinping, che tra pochi mesi cercherà la riconferma presidenziale e che, a differenza dei suoi predecessori, già oggi gode di poteri simili a quelli di Mao Tse-tung, ha risposto che Taiwan fa parte della Cina, facendo sorvolare l’isola da centinaia di suoi caccia. Non contento, seguendo l’esempio del collega russo, ha gelato l’Occidente con il lancio di un missile ipersonico, che nessuno sospettava la Cina avesse. Putin, che ha rigettato l’accusa di uso geopolitico del gas e del petrolio, ha avvertito che l’Ucraina, possibile membro della Nato, è una minaccia per la Russia. Chiaro il messaggio alla Casa Bianca.

Perentoria è stata la replica dell’americano Biden, che non intende perdere la battaglia mediatica e che ha ricordato agli sfidanti: gli Stati Uniti sono la maggiore potenza militare della storia; se la Cina attacca Taiwan, Washington la difenderà. Il russo Putin, temendo di essere coinvolto in dissidi altrui, ha rimarcato che Pechino può risolvere la questione dell’isola ribelle con modi pacifici.

Ma intanto pattuglie aeree e navali degli sfidanti si sono poste insieme a controllare le aree contese e non tanti mesi fa Forze armate dei due Paesi hanno tenuto imponenti manovre strategiche. Tralasciare su quanto avviene nello spazio, dove si stanno ponendo le fondamenta del futuro confronto, e negli ambienti cybernetici, dove da anni volano colpi bassi a ripetizione, aiuta a non perdere del tutto il sonno. La speranza è che il soggiorno nella Città Eterna porti a più miti consigli.

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