Creatività strategica per rifondare l’Europa

ESTERI. La notizia della sconfitta dell’Italia per Expo 2030 è durata lo spazio di un mattino. Forse per carità di patria o perché premono altri problemi.

Quella che è stata vissuta come un’umiliazione nazionale andrebbe però estesa, in base al concetto di «sovranità condivisa», all’intera Europa: dov’era, dov’è, qual è la sua impronta nello scacchiere globale? «Mentre il baricentro mondiale – ha scritto l’ambasciatore Stefano Stefanini sulla “Stampa” – si sposta verso il Golfo e Indo-Pacifico, Europa e Mediterraneo si dividono per un piatto di lenticchie». Da noi la solidarietà non ha funzionato, qui come in altri ambiti (immigrazione), o non è stata adeguatamente cercata.

Sullo sfondo della guerra Israele-Hamas, ha invece pesato il compattamento dei musulmani, arabi e non, sulla candidatura dell’Arabia Saudita. Per quanto la questione in sé non sia di assoluta grandezza, ripropone un deficit: l’irrilevanza del «concerto europeo». Da un po’ di tempo quando si parla della proiezione Ue oltre il cortile di casa si ricorre all’aggettivo «evanescente». Il paziente Europa (paziente inteso come malato) è visto come un insieme di inguaribili adolescenti che, fra litigi ed egoismi capricciosi, non vogliono maturare. Paiono accontentarsi del mercato unico, non avvertono la necessità di un salto di qualità, il senso e le trappole di un procedere storico che non va nella direzione voluta. La forza dell’Europa, potenza civile e normativa, risiede nella seduzione diplomatica, nella capacità di rendere le proprie politiche attrattive e legittime pure agli occhi degli avversari.

Il termine è ambizioso: si chiama visione. In Medio Oriente, il Vecchio continente s’è mosso in ordine sparso. Gli stessi vertici di Bruxelles non la pensano alla stessa maniera. Se si eccettuano i soccorsi umanitari, non siamo della partita, non avendo gli strumenti per esserci. C’è stato un tempo invece (pensiamo all’Italia della Prima Repubblica) in cui è stato possibile appartenere allo schieramento atlantico e, insieme, dimostrare una capacità di dialogo verso l’altra parte di mondo. Il momento è davvero «critico» se lo dice Draghi (incaricato dalla Commissione di delineare una strategia sul futuro della competitività europea), uno che pesa le parole: l’alternativa, nella prospettiva di una Ue che deve farsi Stato, è fra rafforzare l’integrazione, politica economica e anche militare, o morire.

Prodi da tempo ribadisce che se non si supera la paralisi decisionale, abbandonando il criterio dell’unanimità, non si va da nessuna parte. Specie ora che è alle porte la procedura d’ingresso dell’Ucraina e di altri Paesi dell’Est: senza nuove regole quella che è una soluzione inevitabile e auspicabile rischia di produrre nuovi inciampi.

Gli europei, per riprendere lo schema Draghi, hanno solo tre opzioni: paralisi, uscita o integrazione. L’impressione è l’arretramento verso una posizione minima, difensiva. Anche perché nel frattempo l’area sovranista e dintorni è tornata all’offensiva e si intercetta un senso di sospensione in attesa di quel che succederà con il voto di giugno. Senza trascurare che il motore franco-tedesco s’è imballato e chi dovrebbe essere il principale leader europeo, il cancelliere Scholz, è in caduta libera nei sondaggi ed è stato deriso in Parlamento dall’opposizione democristiana. S’è perso lo slancio reattivo che ha gestito la crisi Covid e varato il Next Generation Eu (di cui è parte il Pnrr italiano) in base alla riuscita formula: progetti con benefici comuni finanziati con debito comune. Sulle materie cruciali i 27 restano divisi fra blocchi regionali geopolitici e famiglie partitiche. Le politiche fiscali distanziano Nord e Sud, quelle di Difesa e dello Stato di diritto hanno un impatto divergente fra Est e Ovest. Come riformare il Patto di stabilità, quali politiche migratorie, come definire il quadro giuridico dell’Intelligenza artificiale, dove trovare un punto d’equilibrio fra politiche ambientali e sostenibilità economica e sociale, che cosa fare in futuro con la Russia imperiale, quale approccio al protezionismo più o meno occulto di Cina e Stati Uniti, in che modo porsi nel conflitto tecnologico fra i due giganti globali?

La guerra in Ucraina, finita dietro le quinte sul piano mediatico dopo il crimine di Hamas, finora ha contenuto attitudini differenti fra i partner, ma la «stanchezza» accennata da Giorgia Meloni comincia a entrare nel paesaggio psicologico. Dalle cancellerie europee giungono segnali di esitazione e incertezza e così cresce la frustrazione di Polonia, Repubblica Ceca e Baltici che lamentano il mancato rispetto delle promesse ricevute.

Il baricentro europeo si sta spostando a Est: l’attore protagonista è la Nato, non l’Europa. Gli assunti che hanno garantito stabilità e benessere non sono più validi: sicurezza dagli Usa, energia dalla Russia, export dalla Cina. Sfide comuni gigantesche per un modello europeo da ripensare che impongono creatività strategica, confidando che sono le idee e gli uomini a muovere la storia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA