L’offensiva israeliana e lo spettro delle deportazioni

MONDO. Sarebbe davvero difficile credere che sia casuale la quasi perfetta coincidenza tra l’approvazione del mega-insediamento E1 (3.500 nuove unità abitative da costruire a Est di Gerusalemme, per tagliare in due la Cisgiordania e rendere impossibile qualunque ipotesi di Stato palestinese) e l’inizio delle operazioni militari per completare l’occupazione della Striscia di Gaza, che le forze israeliane peraltro già controllano all’88%.

Come è ormai impossibile pensare, a dispetto di qualunque dichiarazione, che il vero obiettivo del Governo Netanyahu sia l’eliminazione di Hamas e il recupero degli ostaggi. Soprattutto adesso, dopo che i rappresentati del movimento terroristico palestinese hanno dichiarato di accettare il piano di tregua elaborato da Egitto e Qatar. Quelli di Hamas, in questi mesi di pseudo-trattative, hanno cercato di praticare astuzie tattiche che hanno in realtà fatto il gioco di Netanyahu, offrendogli sempre nuove scuse per proseguire nelle sue stragi. Ma anche adesso il premier israeliano da un lato accetta lo spunto di trattativa offerto da Hamas (ricalca quello presentato in giugno dall’inviato di Trump, Steve Witkoff: tregua di 60 giorni con il rilascio immediato di 10 ostaggi e la restituzione dei corpi di quelli deceduti) ma dall’altro ordina alle sue truppe di proseguire nell’avanzata.

Mentre le truppe israeliane si allargano nella Striscia cercando di evitare le imboscate dei miliziani di Hamas, gli emissari di Netanyahu visitano la Libia, l’Indonesia, il Sud Sudan e la Somalia (in questi ultimi casi promettendo aiuti e collaborazione economica), per convincere i dirigenti di questi Paesi a ricevere l’eventuale deportazione forzata dei palestinesi

Ma adesso tutto questo, gli ostaggi, le trattative, la tregua, è ormai storia, purtroppo storia drammaticamente passata. Perché Israele sta passando alla realizzazione pratica di quello che è sempre stato il sogno nel cassetto e che la politica degli insediamenti illegali, praticata da tutti i Governi dello Stato ebraico a prescindere dal colore politico, e con maggiore o minore intensità a seconda della pressione internazionale, nei decenni ha perseguito: il Grande Israele, con la relativa cacciata dei palestinesi. Mentre le truppe israeliane si allargano nella Striscia cercando di evitare le imboscate dei miliziani di Hamas, gli emissari di Netanyahu visitano la Libia, l’Indonesia, il Sud Sudan e la Somalia (in questi ultimi casi promettendo aiuti e collaborazione economica), per convincere i dirigenti di questi Paesi a ricevere l’eventuale deportazione forzata dei palestinesi. Due milioni di disperati che i Paesi vicini, l’Egitto e la Giordania, titolari peraltro di Trattati di pace con Israele, non vogliono in nessun modo accogliere.

Che cosa potranno fare i palestinesi della West Bank, già ora costretti a subire le violenze dei coloni protetti dall’esercito, cacciati da gran parte delle loro terre, obbligati a fare lo slalom tra strade riservate agli israeliani ebrei, insediamenti in cui non possono entrare, posti di blocco, filo spinato, muri e pattuglie

Ma Gaza è solo il primo tempo. Neppure la forza militare schiacciante di Israele può pensare di risolvere il problema in tempi troppo stretti. Nei sei mesi o nell’anno (queste le previsioni) che saranno necessari a spianare la Striscia, l’insediamento E1 comincerà a vedere la luce. E sarà l’avvio della liquidazione di quel simulacro di autonomia a cui oggi è ridotta l’entità palestinese che dovrebbe essere governata da un altro simulacro, il vecchio e ininfluente Abu Mazen. Che cosa potranno fare i palestinesi della West Bank, già ora costretti a subire le violenze dei coloni protetti dall’esercito, cacciati da gran parte delle loro terre, obbligati a fare lo slalom tra strade riservate agli israeliani ebrei, insediamenti in cui non possono entrare, posti di blocco, filo spinato, muri e pattuglie. L’insediamento E1, illegale come lo sono gli altri 144 che hanno fatto a coriandoli la Cisgiordania, li ammasserà ancor più nelle piccole porzioni di territorio loro riservate, ma esposte all’arbitrio quotidiano. E prima o poi, anche solo per ragioni anagrafiche, si aprirà una successione ai vertici che, conoscendo la realtà di Al Fatah e delle sue lotte intestine, avrà esiti imprevedibili e non farà altro che rendere ancor più drammatica la vita dei palestinesi e ancor più facile il compito al governo israeliano.

All’orizzonte, quindi, già si staglia la prospettiva di un secondo e ancor più ampio esodo, visto che i palestinesi di Cisgiordania sono circa tre milioni. Vedremo a quel punto che cosa saprà inventare la comunità internazionale, che oggi riesce appena a balbettare qualche vago e inutile ammonimento a Israele, cullandosi nell’illusione che da questa crisi cruenta possa uscire un Medio Oriente più stabile e pacifico. Un’illusione, appunto, come le molte, troppe altre che hanno segnato nel tempo la relazione sia con i palestinesi sia con Israele.

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