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MONDO. Siamo forse arrivati al crocevia, al punto di non ritorno, al momento delle decisioni se non finali, quasi. Donald Trump ha annunciato che lunedì prossimo farà una «dichiarazione importante» sull’Ucraina.
In precedenza, a margine del summit Asean a Kuala Lumpur, il russo Sergej Lavrov aveva proposto - chissà, disperatamente o fuori tempo massimo? - al collega Usa Marco Rubio una specie di «road map» per concludere una tregua. Dopo le esternazioni a dir poco adirate del presidente statunitense - rimaste senza risposta ufficiale da parte del Cremlino - Mosca si è resa conto che deve fare qualcosa, nonostante Vladimir Putin sia convinto di poter vincere militarmente la partita nei prossimi mesi. Dopotutto Trump rappresenta l’unico salvagente per la Russia, per uscire dal pantano ucraino, in cui il capo del Cremlino si è cacciato quasi tre anni e mezzo fa, credendo in una «blitzkrieg», piena di gloria.
Tale chance più unica che rara, offerta da questa Amministrazione Usa, non va pertanto sprecata in presenza di un’economia federale col fiatone, di finanze in caduta libera, di sempre maggiori difficoltà quotidiane per la gente comune. L’interminabile «tira e molla» di questi mesi ha indispettito il volubile «tycoon», ora dileggiato dai suoi avversari politici: la sua soluzione «in 24 ore» del conflitto ad Est non si è vista nemmeno in sei mesi. Come sulla questione dazi, Trump ha deciso che ora il dado è tratto: adesso seguirà l’azione.
Se il Cremlino non verrà a più miti consigli, gli Stati Uniti imporranno «sanzioni secondarie» del 500% a chi commercerà con i russi o chi permetterà le «triangolazioni», finora volutamente non toccate dagli occidentali per non togliere ossigeno a Putin. In pratica: India, Cina e Turchia su tutti. Il «bazooka» di Trump è già carico e si unirà al 18° pacchetto dell’Unione europea. Bruxelles imporrà, in parole povere, un «tetto massimo fluttuante» al prezzo del petrolio russo. Bisogna tristemente ammettere che l’unica reale speranza di pace in Ucraina si è concretizzata, quando, in aprile, il prezzo dell’«oro nero» è crollato dopo alcune scelte scellerate di Trump. Se il Brent valesse oggi 30 dollari al barile, ad Est non si sparerebbe più un colpo, osservano mestamente gli specialisti. Troppi soldi per l’acquisto di materie prime da parte di Paesi democratici, è necessario ribadirlo, sono finiti nelle mani di autocrazie che li hanno investiti in armi, in guerre, in morte. Dalla prossima settimana Trump si è messo in testa di correggere con i suoi dazi la globalizzazione, che sta favorendo la Cina.
Il messaggio, recapitato a Putin, è di scegliere se diventare vassallo della Cina o di rientrare nella comunità internazionale come partner. Prendere o lasciare. Il vero nodo da concordare non sono i territori ucraini da assegnare, ma come superare le sanzioni - indigeribili per l’economia russa - e il dopoguerra. La presenza dell’inviato Usa Keith Kellogg alla Conferenza di Roma indica che l’interesse nazionale statunitense si è spostato sulla ricostruzione dell’Ucraina. Costo: 500 miliardi. La Russia dovrà pagarli. Questo è il prezzo fatto a Putin dal «tycoon», furibondo per l’affermazione del ministro degli Esteri cinese «non possiamo permettere che Mosca perda in Ucraina» e dal sapere che nelle armi federali ci sono troppi chip di Pechino. In ultimo, Trump e Putin finora hanno spesso ottenuto con le loro azioni risultati opposti a quanto si proponevano: per l’americano l’inizio di un percorso di uscita europea dall’orbita Usa; per il russo l’allargamento della Nato in Scandinavia e il ricompattamento dell’Ue.
Già ai tempi di Barack Obama, Washington aveva chiesto di alzare le spese della difesa per i membri Nato al 2% del Pil. La risposta dell’allora cancelliera tedesca Angela Merkel fu che non c’era problema; l’unica cosa è che gli europei avrebbero speso i soldi in casa propria, comprando armi europee (non americane) e investendo in strutture militari europee dentro alla Nato. In conclusione, i modi fanno la differenza anche nelle scommesse più azzardate come quelle di Trump e di Putin.
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