Partiti al voto, l’esame europeo

L’altro giorno l’irruzione a gamba tesa nella campagna elettorale italiana del pretoriano di Putin, l’ex presidente Medvedev. Ieri la seconda puntata con l’attacco, centrato sulla persona, della «Pravda» a Giorgia Meloni finita nel mirino per il suo atlantismo e per il sostegno all’Ucraina. L’affondo del sito del giornale russo coincide con la presa di posizione di Adolfo Urso (Fratelli d’Italia), presidente del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica), in cui definisce «rischio reale» le ingerenze di Mosca, oltre che di Pechino.

Siamo nel pieno della guerra ibrida ingaggiata dal Cremlino, il tassello di un’operazione strutturata per ricattare l’Italia («Decida se vuole restare al freddo d’inverno») e condizionare il voto in funzione anti Draghi, l’europeo che più ha dato filo da torcere a Putin. Un livello di personalizzazione dello scontro retorico mai raggiunto neppure durante la Guerra fredda, piombato puntuale nella fase in cui la caduta del governo guidato dall’ex banchiere centrale s’è trasformata in un netto vantaggio di Mosca.

L’Italia ridiventa un sorvegliato speciale, scrutata per motivi opposti dai due fronti: Europa e America sono preoccupati per il dopo-Draghi, la Russia ci vede come l’anello debole della Nato, il varco verso governi amici capaci di terremotare la linea sul conflitto in Ucraina e altro. Una guerra nel cuore dell’Europa, definita ieri dal presidente Mattarella «scellerata, provocata dall’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina». Tocca al centrodestra fare chiarezza e trasparenza, per quanto nel suo programma elettorale si schieri formalmente con l’euroatlantismo. Pesano i trascorsi e i rapporti opachi della Lega di Salvini con gli uomini di Mosca e le oscillazioni di Berlusconi, i due leader che, sulla scia dell’insipienza di Conte, hanno affondato l’attuale esecutivo, intestandosi così un indebolimento dell’Italia e dell’Europa. In più persiste un sottostante culturale e ideologico orientato alla comprensione dello zar, la fascinazione dell’uomo solo al comando. L’uscita di Medvedev è stata accolta con sufficienza da Salvini, che ha cercato di ridimensionarla, mentre Berlusconi finora s’è chiuso in un imbarazzante silenzio. La sortita della «Pravda», invece, equivale ad un assist per la Meloni, in quanto la colloca dalla parte «giusta» e nel contempo ne marca la differenza rispetto ai due partner della coalizione.

In realtà i problemi per la fin qui favorita dai sondaggi vengono dall’Europa, non da Mosca: è qui il suo lato scivoloso. Se il suo atlantismo è esplicito e reiterato, non lo è il suo europeismo, o perlomeno la costruzione di questa Europa a impronta popolare (il gruppo dove c’è Forza Italia) e socialista. C’è dell’altro: le vengono imputati i rapporti con Orban, teorico della «democrazia illiberale» e irriducibile guastatore, e con Vox, l’estrema destra spagnola. Per quanto alla guida dei conservatori europei, storica famiglia politica, la sua collocazione viene tuttora vista all’interno del sovranismo. Quell’offensiva che sta mutando pelle e tattica: non più l’idea di uscire dall’Europa, ma di restarvi per logorarla dall’interno. Il centrodestra ha attenuato i toni, facendone però risaltare le amnesie: quel che si diceva sino a poco tempo fa e che oggi viene messo da parte. Anche il tradizionale euroscetticismo s’è ammorbidito a parole, dovrebbe però ormai essere chiaro che l’interesse nazionale e il patriottismo s’identificano con il rafforzamento dell’Ue, specie per un socio fondatore come l’Italia che, scegliendo a suo tempo l’Europa e l’amicizia con gli Stati Uniti, è cresciuto in democrazia e benessere. La «questione esteri» (che è politica interna e politica tout court) si prende così il posto che le compete dopo le sbandate degli anni scorsi. Il governo Draghi ha restituito all’Italia un ruolo nei rapporti internazionali, dandole una politica estera, cosa che non si vedeva da tempo. In un mondo sottosopra, in un 2022 definito «l’anno del pandemonio globale». Fra pandemia, conflitti e democrazie stressate, sono mutati gli equilibri globali: l’Europa s’è trovata in cima all’ agenda il problema della sicurezza come bene collettivo, l’America non è più in grado di garantire l’ombrello protettivo come ha fatto per 70 anni ed è scossa dal trumpismo, le priorità della Casa Bianca riguardano il problema cruciale della Cina, lo stesso peso dell’Italia ha subito una riduzione strategica con la fine della Guerra fredda e va ridefinita la sua azione nel Mediterraneo.

Se a lungo è mancata la percezione di cosa significa collocarsi chiaramente nella strategia internazionale, ora in gioco con il voto ci sono il nostro rapporto con il mondo occidentale e il modello di società e di istituzioni che abbiamo in mente per l’Italia: chi siamo e dove vogliamo andare, se avanti o indietro. Per usare l’espressione di un autorevole studioso, Sergio Fabbrini: il baricentro del Paese è in chi vede l’Europa come esito naturale dello sviluppo politico ed economico. Consapevoli che non c’è sovranità nella solitudine e che le grandi questioni attorno a noi (dopo i guasti prodotti dal governo gialloverde, il Conte 1, a inizio legislatura) sono decisive ed essenziali: da trattare con equilibrio e con le lezioni della storia.

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