Parlamento in fiamme, Libia ancora nel baratro e la pace si allontana

Il commento La Libia deraglia ancora dalla via della pace e a questo punto faremmo bene a prendere sul serio il rischio di un nuovo conflitto nel Mediterraneo, alle porte dell’Italia. Solo sei mesi fa le speranze di riconciliazione del Paese erano riposte nelle elezioni previste per il 24 dicembre scorso e poi rinviate.

Il voto era saltato soprattutto per disaccordi relativi ai criteri di selezione dei candidati, oltre 100, i più importanti dei quali avevano caratteristiche considerate problematiche quando non preoccupanti. Tra cui il primo ministro ad interim, Dbeibah, che quando era stato nominato con l’approvazione della comunità internazionale aveva premesso che non avrebbe partecipato alle presidenziali, ricoprendo un ruolo a tempo. Le elezioni saltarono ma Dbeibah sostenne di avere avviato colloqui per stabilire una nuova «road map» che prevedesse il voto a giugno, non avvenuto.

L’assetto istituzionale che era uscito dagli accordi del febbraio 2021 mediati dall’Onu prevedeva che il Parlamento nazionale avesse sede a Tobruk, mentre il governo di unità (il primo dopo sette anni di divisioni) operasse da Tripoli. Il 10 febbraio scorso un primo colpo di scienza: l’Assemblea nominò un secondo premier, Fathi Bashagha, in contrapposizione a quello legittimo, aggravando ulteriormente una situazione politica già tesa e rischiando di riportare la Libia indietro di oltre un anno, quando c’erano due governi in competizione tra loro, ancora a Tripoli e a Tobruk, e due schieramenti armati formati da milizie che si combattevano per prendere il controllo del territorio.

A completare il quadro, la presenza di forze straniere sul campo. La Turchia a sostegno di Tripoli e la compagnia militare privata Wagner, legata al Cremlino, in appoggio all’ex generale Khalifa Haftar e a Toubruk

Rischi puntualmente materializzatisi: il 17 maggio ci sono stati alcuni scontri nella capitale dopo che Bashagha ha tentato di entrare (respinto) nel centro della città per assumere il controllo del governo ufficiale. Venerdì scorso invece manifestanti che protestavano contro l’esecutivo per le sistematiche interruzioni di corrente elettrica e per la situazione di instabilità politica, hanno incendiato il Parlamento di Tobruk. Le contestazioni si sono estese anche a Tripoli e a città minori. A completare il quadro, la presenza di forze straniere sul campo. La Turchia a sostegno di Tripoli e la compagnia militare privata Wagner, legata al Cremlino, in appoggio all’ex generale Khalifa Haftar e a Toubruk. Un team di esperti dell’Onu, che controlla il rispetto dell’embargo sulle armi imposto in Libia, ha affermato che i mercenari russi hanno violato gravemente il diritto internazionale. Uno studio recente delle Nazioni Unite ha mostrato come la compagnia abbia riempito le aree residenziali del Paese, compresa la capitale, con trappole e mine esplosive.

Una Libia destabilizzata è un pericolo anche per le infiltrazioni del terrorismo islamista dal confinante Sahel, per i traffici di armi e di droga. Non vale la giustificazione che dallo scorso febbraio la comunità internazionale è impegnata nel drammatico fronte ucraino

La comunità internazionale, dopo aver lavorato per portare i libici alle urne, ha assunto un atteggiamento troppo attendista, senza vigilare sulle dinamiche che parcellizzano un territorio diviso per clan. Si è considerata la Libia come un problema solo perché punto di partenza dei migranti diretti in Europa. Ma proprio il fenomeno della migrazione mostra un intreccio perverso tra governanti, trafficanti e Guardia costiera. Non si è riusciti nemmeno a far chiudere i lager dove chi scappa da guerre, povertà e ora anche siccità viene rinchiuso, torturato quando non ucciso. Ma una Libia destabilizzata è un pericolo anche per le infiltrazioni del terrorismo islamista dal confinante Sahel, per i traffici di armi e di droga. Non vale la giustificazione che dallo scorso febbraio la comunità internazionale è impegnata nel drammatico fronte ucraino. La destabilizzazione libica è precedente e solo il nostro Paese ha speso tra l’altro in quattro anni la cifra record di 785 milioni di euro per bloccare i flussi migratori in Libia e finanziare le missioni navali italiane ed europee. Ma i soldi non comprano la pace, se affidati a leader inaffidabili.

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